Non ho mai ritenuto che Donald Trump rappresentasse un pericolo per la democrazia americana, anche perché se bastassero pochi decreti per mettere in crisi un sistema centenario, allora forse quel sistema non è tanto solido. Non ho neanche mai creduto alla narrazione semplicistica, tanto cara a certa stampa liberal, di una “nuova America trumpiana” in grado di rifondarsi attorno alla figura di Trump come se fosse un nuovo Cesare, o un nuovo Churchill repubblicano.

Evocare lo spettro della dittatura, ritenere alcune sue scelte discutibili in maniera eccessivamente drammatica, mitizzare il personaggio, attribuirgli una forza ideologica organica e coerente, finisce con attribuirgli una statura politica che sta dimostrando di non possedere. La democrazia americana resiste perché è un sistema solido, non perché Trump sia diventato più moderato o perché la sua visione abbia ritrovato equilibrio. Quello che sta passando inosservato è che più semplicemente il trumpismo si sta rivelando incapace di reggere l’urto delle crisi che lo stanno travolgendo.

La strategia del presidente americano è debole, fluida come le idee che egli stesso vorrebbe combattere, senza una statura capace di dare una visione al mondo. Una strategia incoerente che mette Trump a nudo, mostrando, oltre la propaganda MAGA, che, grazie alla sua totale incapacità di governare con coerenza i tempi complessi che viviamo, come gli USA stiano diventando piccoli piccoli. Dalla politica estera a quella economica, ogni sua mossa recente si sta rivelando controproducente, erratica, debole.

Sul fronte internazionale, Trump aveva promesso di riportare l’America fuori dai conflitti. Invece ha fallito in Ucraina, limitandosi a una retorica ambigua: né pienamente interventista né davvero isolazionista, né pienamente a supporto di Zelensky, né pienamente filo-russa. Ha attaccato la Nato a parole, salvo poi accettarne i vincoli di fatto e di difenderne gli assetti.

Rispetto a Vladimir Putin, non ha avuto alcuna autorevolezza strategica: non un incontro significativo, nessuna iniziativa diplomatica, nessuna visione. E questo per un presidente americano è un’anomalia storica, che non sta passando inosservata, soprattutto tra le fila del suo elettorato più muscolare ed ansioso di fare l’America sempre più grande.

In economia sta collezionando un disastro dopo l’altro. I suoi dazi vengono annunciati, rimandati, ritirati o ridotti, facendo vedere come l’altro cavallo di battaglia, sia oltre che debole, anche un boomerang politico. Le misure commerciali dovevano contrastare la Cina, difendere la produzione americana, regolare un capitalismo finanziario troppo liquido, ma fino ad ora non hanno sortito nessuno degli effetti annunciati. In realtà, hanno colpito i consumatori, irrigidito le catene globali, alimentato instabilità, senza intaccare i reali nodi della crisi occidentale.

Paradossalmente, invece di difendere l’economia interna, il trumpismo la sta mettendo in crisi. Trump rivendica “imprevedibilità” come virtù negoziale; ma questa costruzione illusoria serve a coprire la sua debolezza; in pratica, cambia idea con la volubilità di un adolescente, ribaltando posizioni nel giro di poche settimane. Analisti autorevoli parlano del suo modo di governare come di una eterodossia tattica incapace di consolidarsi in visione. Trump non riesce a leggere la nuova fase geopolitica, né a rispondere alle sue sfide, né ad offrire una soluzione che non sia simile alle molte altre che hanno fallito.

Ma l’umiliazione più grande è rappresentata dal fatto che l’America è diventata succube dell’agenda israeliana, che detta i tempi, modi e le priorità della politica estera americana. Il trumpismo non sta solo fallendo. Sta mostrando alcuni limiti politici impensabili per una superpotenza. L’attacco aereo in Iran, condotto in sinergia ma di fatto sotto dettatura e visione strategica israeliana, rappresenta in tal senso un punto di rottura simbolico: non una dimostrazione di forza, ma l’ammissione implicita di una perdita di leadership.

Trump, che prometteva di “riportare l’America a casa” e restituirle potere decisionale, si ritrova oggi succube delle priorità altrui, costretto a reagire agli eventi secondo interessi esterni, non a guidarli. Le bombe senza progetto altro non sono che il gesto disperato emuscolare di chi non sa più governare la complessità e ricorre alla forza perché ha smarrito la bussola. Quella che si profila all’orizzonte non è soltanto la fine del trumpismo, ma forse la fine di un’intera illusione della nuova destra americana: l’idea che si possa ancora gestire il mondo con categorie semplici e risposte vecchie come la guerra commerciale, la deterrenza militare, il protezionismo selettivo, il mito dell’exceptionalism americano.

Caduta la maschera, Trump si sta mostrando per quello che è: un uomo in balia degli eventi che non riesce ad essere il “nuovo”, ma il volto esasperato del vecchio. E il fatto che oggi fatichi a reggere la scena, che sia diventato prevedibile, debole, costretto a inseguire agende altrui, è la prova più chiara della sua irrilevanza crescente. Non serve demonizzarlo. Basta guardare ciò che non è in grado di fare ed aspettare il frastuono della sua caduta.