Restare non può essere una condanna, partire non dovrebbe essere una fuga, tornare non deve apparire un’illusione. È compito delle istituzioni e della società costruire le condizioni affinché questa scelta sia davvero libera, possibile e dignitosa, ovunque.
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Vivo in un paesino dell’Area Grecanica, il luogo dove sono nato e dove ho scelto di restare. È una scelta consapevole, non dettata dall’abitudine ma dal legame profondo con la mia terra. Eppure, restando e vivendo qui, vedo ogni giorno i segni di un declino che avanza: le case si chiudono, le scuole si svuotano, le voci dei bambini si fanno più rare. E sarebbe lo stesso, in fondo, anche se vivessi in qualsiasi altro luogo della Città Metropolitana di Reggio Calabria, persino nei centri maggiori: perché quel senso di svuotamento e di assenza di futuro attraversa ormai tutto il territorio, senza confini geografici.
È come tornare agli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, quando i paesi del Sud si svuotavano per la grande emigrazione. Allora si partiva verso una speranza — la Germania, la Svizzera, il Nord Italia, l’Australia, le Americhe — lasciando e impoverendo la propria terra, con la convinzione che altrove ci fosse un futuro migliore, che in moltissimi casi c’è stato.
Oggi quella migrazione è tornata, con un senso diverso e più amaro. I giovani, spesso altamente formati e competenti, continuano a partire — non sempre verso una prospettiva di crescita, ma troppo spesso verso la precarietà, l’incertezza, le rinunce e, ancor più grave, senza più la speranza — e talvolta neppure la volontà — di tornare.
Eppure, ogni persona dovrebbe poter esercitare liberamente il diritto di scegliere: di restare, di partire o di tornare. Restare non può essere una condanna, partire non dovrebbe essere una fuga, tornare non deve apparire un’illusione. È compito delle istituzioni e della società costruire le condizioni affinché questa scelta sia davvero libera, possibile e dignitosa, ovunque.
Nel Mezzogiorno, e in Calabria in particolare, l’istruzione è diventata un passaporto per partire, non più una chiave per investire le proprie conoscenze e abilità nella propria terra. Negli ultimi vent’anni più di 120.000 laureati hanno lasciato il Sud; oltre 40.000 soltanto dalla Calabria, metà dei quali under 34. Sono, pertanto, i più preparati che partono. È un paradosso crudele: le università del Sud generano competenze che il mercato locale non riesce ad accogliere. Così, il sapere diventa la via per andarsene.
La fuga dei giovani impoverisce tutto: l’economia, la vita sociale, la speranza collettiva. Quando i ragazzi lasciano la propria terra, non portano via solo il loro talento, ma anche la possibilità stessa di futuro per le comunità. Le aree interne appaiono già svuotate: borghi silenziosi dove restano solo gli anziani e i ricordi, dove il tempo sembra essersi fermato.
I finanziamenti destinati al loro recupero spesso si perdono nei meandri di un sistema burocratico che, più che sostenere, rallenta e disperde la visione di uno sviluppo condiviso. Una comunità che perde i suoi giovani perde anche i propri anticorpi sociali. L’assenza di energie nuove e di speranza può aprire varchi per forme di rassegnazione e dipendenza, indebolendo quegli argini morali che, da sempre, difendono la Calabria dal peso drammatico delle sue ombre.
Perché là dove si spegne la fiducia, cresce lo spazio dell’illegalità; dove la conoscenza arretra, avanza la paura, la disillusione, la sensazione che niente si possa fare. Eppure, invertire la rotta è possibile. Servono politiche industriali e territoriali che valorizzino le risorse vere del Sud: l’agroalimentare di qualità, il turismo sostenibile, i poli tecnologici e ambientali emergenti. Servono servizi efficienti, opportunità per le donne, incentivi al rientro dei talenti e — soprattutto — una visione che rimetta la conoscenza e la competenza al centro delle scelte pubbliche.
Servono investimenti in infrastrutture concepite e realizzate con una visione complessiva e strategica, insieme a sistemi di mobilità moderna e integrata che garantiscano l’accesso ai servizi essenziali, ai luoghi di lavoro, di studio e di cura, contrastando l’isolamento che ancora oggi segna molte comunità dell’entroterra.
In questo senso, anche le grandi opere infrastrutturali, che possono essere traino di sviluppo economico e occupazionale, devono essere parte di una strategia organica, capace di collegare e valorizzare l’intero sistema territoriale, non un episodio isolato. Su questo non si può essere tifosi: è necessario ragionare con metodo, dati e responsabilità, valutando gli effetti reali delle scelte nel tempo e nel territorio. Le grandi opere acquistano senso solo se inserite in una visione di sviluppo integrato, capace di generare benefici diffusi e duraturi, non vantaggi episodici o settoriali. Ed è proprio questo il ruolo della classe dirigente del territorio: accompagnare le opere con visioni e strategie di sviluppo, trasformando le infrastrutture in strumenti di crescita, coesione e futuro condiviso.
Perché non si possono commettere nuovamente gli errori del passato, che promettevano occupazione e hanno lasciato in eredità solo abbandono. Il riscatto della Calabria e delle sue aree interne non passa soltanto dai fondi o dai progetti, ma da un nuovo patto tra conoscenza, territorio e responsabilità collettiva.
Occorre rafforzare il capitale tecnico e amministrativo locale, perché ogni Comune possa contare su strutture competenti e stabili, in grado di progettare, gestire e presidiare il territorio con continuità e qualità. La collaborazione tra enti, Ordini professionali e Università deve diventare un modello ordinario di azione pubblica, non un’eccezione virtuosa.
Serve una rete viva tra scuole, università e professioni: una filiera della conoscenza che formi giovani capaci di tradurre l’innovazione in impresa, lavoro e rigenerazione locale. La scuola e l’università devono tornare a essere il cuore pulsante della crescita civile, non soltanto luoghi di formazione, ma presìdi di comunità e di cittadinanza attiva.
La rigenerazione dei borghi e delle aree interne deve diventare un progetto condiviso e permanente. Ogni intervento di recupero deve rappresentare un’occasione per introdurre energie rinnovabili, mobilità sostenibile, digitalizzazione e nuovi spazi per il lavoro diffuso. La bellezza dei luoghi può tornare a essere un valore economico, culturale e sociale se accompagnata da una visione coerente e duratura. Occorre anche favorire il ritorno dei giovani e dei talenti, offrendo opportunità concrete, spazi rigenerati, incentivi fiscali e strumenti di sostegno all’imprenditorialità tecnica e innovativa. Tornare non deve essere una scelta di nostalgia, ma un atto di fiducia nel futuro.
È indispensabile, inoltre, rimettere al centro la conoscenza come bene comune. La competenza professionale deve essere riconosciuta come garanzia di legalità e di sviluppo, perché solo dove la tecnica incontra l’etica, la fiducia può rinascere e tradursi in progresso reale.
La Calabria non ha bisogno di miracoli, ma di metodo, visione e fiducia nella propria intelligenza collettiva. Restare, oggi, è un atto di costruzione: significa credere che la conoscenza non sia una fuga, ma una radice.

