Corpi debilitati dalla denutrizione, famiglie lacerate e lutti senza fine. Così il conflitto in Medio Oriente sta cancellando l’infanzia
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Palestinesi in fila per ricevere cibo e aiuti
«Voglio andare in paradiso per essere finalmente felice».
«Voglio raggiungere mamma e papà».
«Voglio smettere di soffrire».
Sono frasi che nessun bambino al mondo dovrebbe pronunciare. E invece a Gaza, oggi, l’infanzia ha la voce strozzata da queste parole. Non parlano più di giochi, non immaginano futuri: chiedono la morte come unica via di fuga. Nei disegni che consegnano agli operatori umanitari non ci sono più case, gite o sorrisi. C’è il paradiso. Perché solo lì, credono, troveranno cibo, pace e i loro cari uccisi sotto le bombe o svaniti tra i morsi della fame.
La carestia è stata dichiarata ufficialmente dalle Nazioni Unite. Non è un’esagerazione, non è propaganda. È un fatto: bambini che non riescono nemmeno a piangere, tanto il corpo è debilitato dalla denutrizione. Cliniche di emergenza dove neonati di pochi giorni pesano meno di due chili. Madri che ammettono di non avere latte per allattare e cercano di placare i figli con farina diluita in acqua sporca. Bambini che collassano e che non hanno più la forza di reggere una matita.
Oggi, secondo i dati di Save the Children e UNICEF, la vita di oltre 320 mila bambini sotto i cinque anni è a rischio immediato. Nel solo mese di maggio sono stati registrati oltre 5 mila casi di malnutrizione acuta, 636 dei quali gravi, con prognosi mortale senza cure tempestive. Ogni giorno muoiono di fame almeno dieci persone, spesso bambini. In totale, dall’inizio del blocco, i morti per denutrizione hanno superato quota 300. Sono cifre che ricordano le carestie ottocentesche, eppure accadono qui, davanti agli occhi del mondo connesso, nell’anno 2025.
E allora bisogna dirlo chiaro: non è destino, è una scelta. Scelte politiche e militari hanno trasformato Gaza in un inferno a cielo aperto, in un laboratorio di morte infantile. I convogli umanitari vengono fermati, respinti, lasciati marcire ai valichi di frontiera. Le organizzazioni internazionali denunciano da mesi: esistono vie sicure per consegnare gli aiuti, ma restano bloccate. Perché? Perché in questa guerra la fame è diventata un’arma. Un crimine che colpisce i più piccoli, i più indifesi.
C’è un paradosso atroce: i bambini che dovrebbero sognare il futuro sognano di morire, accarezzano il suicidio. La morte come salvezza, la tomba come rifugio. Non è retorica: è ciò che raccontano ogni giorno gli operatori umanitari nelle cliniche, nei campi profughi, tra le macerie. «Qui è sempre più difficile» ripetono, stremati, mentre si spostano di continuo per sfuggire ai bombardamenti insieme alle famiglie. L’87% della Striscia è sotto ordine di evacuazione. Non c’è più un luogo sicuro: non al nord, non al sud, nemmeno a Rafah. Gaza non è più una città: è un cimitero di infanzie.
E persino quando arriva la speranza, spesso si trasforma in tragedia. È accaduto nei mesi scorsi, quando alcuni bambini, correndo verso i pacchi di aiuti lanciati dagli aerei, sono morti schiacciati dal loro stesso peso. Pacchi che contenevano pane, farina, riso: la promessa di vita, divenuta paradossalmente causa di morte. A Gaza si può morire persino della speranza di mangiare.
E io mi chiedo – e vi chiedo: quanto tempo abbiamo ancora intenzione di restare a guardare? Quanti disegni di paradisi infantili ci servono per capire che stiamo abdicando al nostro ruolo di esseri umani? È accettabile che un bambino, invece di chiedere una palla o un quaderno, chieda la morte?
Un bambino di Gaza disegna un prato e un tavolo pieno di pane. Poi aggiunge un cielo azzurro, e sopra scrive una sola parola: «Paradiso». Per lui non è un concetto teologico, è la speranza di poter mangiare e ritrovare chi non c’è più. Questo è il furto più atroce: un’infanzia che non sogna il futuro, ma la morte come salvezza.
E allora basta con le parole vuote. Aprite i valichi, fate entrare il cibo, l’acqua, le medicine. Subito. Perché ogni bambino che muore di fame non è una vittima della guerra: è un crimine contro l’umanità. E chi resta in silenzio, chi accetta che accada, è complice di quell’assassinio.