Uno dei grandi miti da sfatare è che esista ancora una differenza tra centro destra e centro sinistra. Questa differenza è stata nella sostanza totalmente disintegrata dal contesto economico e politico globale, contesto dove domina una ideologia assoluta che basa la propria esistenza e la propria egemonia su di un pensiero estremo di destra neo-liberale, un pensiero assoluto ed inattaccabile di cui i principali partiti dei due schieramenti classici sono espressione e cinghia di trasmissione.

Dietro gli slogan che si ripetono dagli anni 90 senza un senso logico, “riforme”, “rinnovamento”, “modernizzazione” e “buon governo”, si cela un programma ben definito che vede il mercato al di sopra degli stati e degli individui ed il denaro come unico metro per misurare il valore delle persone e dei rapporti di forza globali. Questo principio viene condiviso, con toni in apparenza diversi, da entrambi gli schieramenti ed ha portato sempre le solite soluzioni: stato minimo, privatizzazioni, flessibilità estrema del lavoro, precarietà infinita e normalizzazione delle disuguaglianze. È un copione già scritto, un copione che viene redatto nelle sedi che sfuggono alla sovranità nazionale e che in Calabria assume solo i toni più evidenti di un processo nazionale, in quanto la progressiva distruzione dello stato sociale si inserisce in un panorama produttivo povero di idee e di contenuti.

Nell’indifferenza generale, le infrastrutture pubbliche vengono da anni cedute, anzi regalate, ai privati, la sanità si regge su convenzioni, concessioni e fondazioni, la scuola pubblica viene trattata come un’azienda in crisi da ristrutturare. In nome della competitività si smantella la solidarietà; in nome della responsabilità fiscale, si riduce il cittadino a contribuente. Non esiste alternativa a questo sistema, il denaro, il debito sono gli unici arbitri della vita delle persone, ed Occhiuto vince perché parla la stessa lingua del suo avversario: quella del mercato elevato a destino ed a paradigma assoluto di governo delle persone e delle cose.

La differenza non è ideologica, ma di toni. Entrambi promettono “efficienza” e “controllo della spesa”, cioè promettono il trasferimento di risorse dal basso verso l’alto, la riduzione del welfare, la flessibilità del lavoro e il contenimento dei salari, salari che stagnano e che arretrano ormai da decenni. Nel frattempo, i grandi gruppi finanziari, che entrambi gli schieramenti dichiarano di “detestare”, restano i veri beneficiari del sistema che governano. Le banche controllano la vita quotidiana con strumenti di credito e debito digitale, lo Stato diventa un amministratore dei conti, un notaio della povertà.
Ma la tragedia è che la maggior parte degli esponenti politici dei due grandi schieramenti non ha neanche idea di cosa vogliano dire le cose contenute in questo articolo, perchè essi non sono solo incapaci di governare i processi, ma non li capiscono neanche, sono solo capaci di subirne le conseguenze. Parlano senza conoscere, ripetono slogan che non hanno nessun senso, se non quello di operare una progressiva espropriazione di risorse per il ceto medio. Sono come quelli che si tirano le martellate sulle palle all’infinito senza accorgersene, perchè non sanno neanche loro cosa firmano, cosa votano e qual interessi proteggono.

Se sentite parlare attentamente Enrico Letta, vi rendete conto che la differenza politica è vanificata, è solo semantica; da una parte si parla di “responsabilità”, dall’altra di “modernità”; ma entrambe indicano la stessa cosa: il controllo serrato dei conti dei cittadini e l’erosione lenta dei diritti collettivi. Nel frattempo da anni viene applicata la nuova religione fiscale del neoliberismo: la tassazione ossessiva dei piccoli, dei lavoratori autonomi, dei precari e delle microimprese, mentre i grandi patrimoni vengono progressivamente detassati, protetti, nascosti dietro trust, holding e paradisi fiscali benedetti dalla legge. La pressione fiscale si concentra sempre più sui redditi tracciabili, sui salari e sulle spese quotidiane, il caffè, la benzina, l’elettricità, mentre le rendite finanziarie, le plusvalenze immobiliari e i dividendi vengono alleggeriti, giustificati in nome della “competitività”. È un paradosso sistemico: chi ha meno paga di più, chi ha di più decide quanto pagare.

Sono anni che in questo modo la giustizia sociale viene ribaltata in ingegneria fiscale, e la fiscalità diventa lo strumento invisibile di una politica che non redistribuisce, ma concentra. Lo Stato, invece di garantire uguaglianza, diventa un esattore digitale, un contabile del disagio. Smarrite le differenze politiche, tutta la lotta si concentra orma su temi marginali, su indagini, una presunta onestà ed altre questioni infantili che non spostano mai niente. Nel frattempo i ricchi diventano più ricchi ed il ceto medio scompare per mantenere inalterati i privilegi degli altri.