Se è un mostro che credete di trovare, l’Ed Gein del terzo capitolo della saga Netflix “Monster”, dedicata ai più sanguinosi criminali d’America, non sarà tra quelli. La sua storia raccontata attraverso la fredda cronaca dei giornali, riporta il ritratto di un uomo disturbato, nato agli inizi del Novecento in un paesino del Wisconsin, Plainfield, accoccolato nei paesaggi di un’America rurale e sonnolenta, che ha ucciso, smembrato, compiuto atti di necrofilia, ispirando un filone cinematografico ancora fecondo.

Ma i creatori della serie antologica, Ryan Murphy e Ian Brennan (quest’ultimo ha scritto per intero questa stagione) nell’ultimo atto scelgono una via diversa, ma di gran lunga più accattivante, di quella percorsa con Dahmer, il cannibale di Milwaukee, e con i fratelli Menendez.

“La storia di Ed Gein” indaga e srotola non solo i crudi fatti, ma si allarga sulle conseguenze e l’impatto sociologico che la narrazione cinematografica della follia tradotta in crimine bestiale, ha avuto nei decenni.

Gli epigoni di quello che venne ribattezzato il Macellaio di Plainfield, quindi i vari Ted Bundy, Richard Speck, John Wayne Gacy, serial killer consegnati alla storia del crime, appaiono nella serie in modo fantasioso, come fantasmi riconoscenti verso Gein, gran maestro di violenza e perversione, ma non c’è nulla di vero, così come nulla di vero c’è nel crossover con “Mindhunter” – bellissima serie firmata da David  Fincher, che diventerà un film – in cui vediamo gli agenti dell’Fbi, Robert Ressler e John Douglas, i primi profiler della storia, entrare nel manicomio per chiedere aiuto a Gein per catturare un assassino seriale. Citazione che rimanda subito all’Hannibal Lecter creato da Thomas Harris, ma che di reale e storico, nonostante il fascino della citazione, non ha proprio niente.

Negli otto episodi di “Monster”, la vita al presente di Ed Gein si interseca, in continua dissolvenza, con il futuro in cui il macellaio da assassino diventa archetipo narrativo. L’antesignano, in carne e ossa, delle American horror stories, ispirò in prima battuta Alfred Hitchcock per il suo Psycho, film che segnò una sterzata verso un cinema di sangue e violenza che il pubblico apprezzò al punto da volerne ancora e ancora («come un maiale che assaggi il sangue»).

Ma anche lì gli autori aprono qui una finestra anche sull’interprete della celebre pellicola, Anthony Perkins, e sulla sua sessualità repressa che in qualche modo il regista inglese vide in connessione con quella di Gein.

I dettagli degli atti efferati compiuti dall’uomo di Plainfield, nella solitudine della sua fattoria marcescente, ritornano non solo in “Psycho”, ma in altri film cult come “Non aprite quella porta” e “Il silenzio degli innocenti” e divampano in tutta la vena black crime dagli anni Novanta ai Duemila, passando da “Seven” a “Zodiac”, in bilico tra realtà e finzione, cronaca e drammatizzazione scenica.

Di questo elemento di finzione che colora, straborda dal reale per ravvivare i contorni dell’orrore, la serie ne fa un uso generoso, inventando, colmando i vuoti, dando fiato all’irreale, alle visioni, alle allucinazioni che, in parte, riscrivono la personalità di Gein con cui, follemente, si finisce per empatizzare verso il finale. Nella serie vediamo il macellaio, sul tramonto della vita, indagare su sé stesso per capire cosa è veramente. Il suo disturbo psicotico, la sua mente scissa in pezzi come uno specchio infranto, non restano più sotto il pelo dell’incoscienza ma, a un certo punto, emergono nella piena consapevolezza di sé.

La vita di Gein, segnata dalla castrazione psicologica e sessuale, di una madre fanatica e dominante, lo condanna a una perversione necrofila che Gein perpetrerà dopo la morte della donna. Il vuoto lasciato dal lutto, Ed Gein lo riempie dissotterrando cadaveri di cui indossa la pelle, uccidendo due donne, che alla madre somigliavano nella corporatura, quasi a voler resuscitare la genitrice, per lui boia e salvezza insieme.

«Solo una madre può amarti» è il mantra che si rincorre nella serie con la voce di Madre – chiamata così, anzi evocata, come fosse una divinità -, che però non arriva da quel cadavere rattrappito su un dondolo, ma dal sé stesso da cui Gein non può fuggire.

Le suggestioni di morte sbocciano nella testa di Gein con la scoperta in gioventù di riviste vendute sottobanco che mostravano, com dovizia di particolari, le immagini dei prigionieri dell’Olocausto scarnificati e ridotti a brandelli. In particolare è Ilse Koch, “The Bitch of Buchenwald”, moglie del comandante Karl-Otto Koch del campo di concentramento di Buchenwald, a suscitare un palpito speciale in Gein. La donna accusata e processata per aver realizzato oggetti d’arredo con la pelle delle vittime della follia nazista, diventa una miccia che esplode in una psiche già contorta e deviata. La voglia di emulazione si mescola alla compensazione di un’assenza, alla perdita dell’ultima briciola di lucidità, rendendolo un uomo malato, un assassino.