Lo studioso di San Nicola da Crissa nel Comitato scientifico che ha elaborato la candidatura: «Ha contribuito a definire il valore culturale e antropologico della gastronomia italiana, evidenziando come i saperi culinari siano legati a tradizioni, identità territoriale e pratiche di convivialità»
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C’è anche la firma dell’antropologo calabrese Vito Teti - direttore del Centro Demo-antropologico Raffaele Lombardi Satriani dell’Università della Calabria e membro del Comitato italiano di Antropologia dell’alimentazione – nel dossier che è valso alla cucina italiana il riconoscimento di Patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco.
Lo studioso di San Nicola da Crissa ha fatto parte del Comitato scientifico che ha elaborato il dossier “Cucina italiana tra sostenibilità e diversità bioculturali” che ha portato la candidatura della cucina italiana all’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di educazione, scienza e cultura.
A darne notizia, con la consueta misura, è lo stesso Teti che, sui suoi canali social, scrive: «senza retorica e con la visione problematica che ho dell'identità anche “cucinaria”, mi fa piacere informare come ci sia tanto delle mie ricerche, dei miei studi, delle mie pubblicazioni sulle cucine, la storia e le culture alimentari della Calabria e del Mediterraneo, nel dossier elaborato da un comitato scientifico guidato dal professor Massimo Montanari (Docente di Storia medievale e Storia dell’alimentazione all’Università di Bologna) e curato dal professor Luigi Petrillo (direttore della Cattedra Unesco dell’Università Unitelma Sapienza di Roma)».
A far parte del comitato anche Roberta Garibaldi (presidente dell’Associazione italiana Turismo enogastronomico), Luisa Bocchietto (Architetto, Senator della World Design Organization), Alberto Capatti (Storico dell’alimentazione e della Gastronomia italiana), Giovanna Frosini (Docente di Storia della lingua italiana, Accademica della Crusca), Paolo Petroni (presidente dell’Accademia Italiana della Cucina), Vincenzo Santorio (responsabile del Dipartimento di Cultura e Turismo dell’Anci), Luca Serianni (Docente di Storia della lingua italiana dell’Università La Sapienza), Laila Tentoni (presidente di Casa Artusi) e, appunto, Vito Teti, la cui vasta ricerca in materia di alimentazione ha trovato ampio spazio nello stesso dossier.
«In pratica, Teti - si legge non a caso in una citazione - ha contribuito a definire il valore culturale e antropologico della gastronomia italiana, evidenziando come i saperi culinari siano legati a tradizioni, identità territoriale e pratiche di convivialità. Il suo apporto è stato fondamentale per dimostrare all’Unesco che la cucina italiana non è solo un insieme di ricette, ma un vero e proprio patrimonio immateriale condiviso da tutta la popolazione».
Dal canto suo, l’antropologo sottolinea come «Questo riconoscimento diventa per me una sorta di madeleine proustiana (mai il riferimento è stato più puntuale e pertinente) per ripensare quasi una vita di studi di antropologia alimentare a partire dal 1976 (ormai 50 anni fa), con la pubblicazione de "Il pane, la beffa, la festa" (Guaraldi 1976), che, all'epoca ebbe un grandissimo successo di critica e di lettori (oltre 10mila copie vendute, tantissime, e recensioni sui principali giornali nazionali e regionali e su riviste scientifiche. Fin dall'iniziale tesi da laurea con Diego Carpitella “diventavo”, assieme a Massimo Montanari, il "primo" ad occuparmi di etnografia ed antropologia del cibo in Italia, in un periodo in cui dire che la cucina era anche una cultura sembrava un'eresia, e non esisteva ancora la repubblica dei "cuochi", dei dietologi, dei "venditori" di cibo su giornali, televisione, riviste, ecc».
Quindi ricorda: «Pure passando ad altri ambiti di ricerca (emigrazione, viaggio, religione popolare, antropologia dei luoghi, abbandono, spopolamento, titi, feste, pellegrinaggi, nostalgia, melanconia ecc.), negli anni, ho continuato ad occuparmi di Storia e Antropologia alimentare, pubblicando centinaia (non esagero) di saggi e articoli su riviste e giornali italiani e stranieri, scientifiche e divulgative, e a pubblicare libri di "successo" con Donzelli, Einaudi, Maltemi, Fondazione Carical, Abramo, Monteleone, ecc. Per la cronaca ho un lavoro, tra i tanti non pubblicati, di circa 1000 pagine che ho chiamato "Il romanzo del cibo", che forse pubblicherò, e, a 50 anni della prima edizione, l'anno prossimo ripubblicherò il "Pane, la beffa e la festa", un libro di riferimento a livello internazionale, ormai introvabile, come tanti altri. Io stesso ho fatto fatica a trovare una copia dei miei principali libri sul cibo e sulle culture del cibo e molti volumi li ho reperiti tra i libri che mi ha lasciato il mio fratello Salvatore Piermarini».
«In altre parole – scrive in conclusione il professor Teti -, dietro questo "riconoscimento" c'è "quasi una vita" di ricerche, letture, passioni, viaggi, cammini, osservazione del noi e degli altri, tra storia, etnografia, antropologia, memoria, letteratura. Al di là dell'apporto dato al dossier Unesco, penso, con un certo orgoglio, anche se credo che tutto passa e tutto verrà dimenticato, di avere, comunque, dato un apporto decisivo alla conoscenza del folklore, della storia, dei riti, dei simboli alimentari della mia Calabria e del Mediterraneo, visti sempre in un contesto europeo e globale. E, certo mi fa piacere, che nelle motivazioni per il riconoscimento della Cucina italiana come bene immateriale dell'umanità ci sia tanto della storia e della cultura alimentare della mia Calabria, quella che ho cercato di cogliere nella sua complessità e contraddizione, profondità».



