Donald Trump ha deciso che non gli basta più combattere giudici e giornalisti. Ora mette mano anche alla composizione chimica delle bibite. L’ultima trovata del presidente riguarda la Coca-Cola, che secondo un suo post social tornerà presto a essere prodotta con zucchero di canna al posto dello sciroppo di mais, «perché dobbiamo renderla di nuovo sana». A suo dire, l’azienda avrebbe già accettato. Ma Coca-Cola non conferma, si limita a una frase da manuale: «Apprezziamo l’interesse del presidente verso i nostri prodotti».

Il nuovo fronte aperto da Trump – e sostenuto con entusiasmo dal ministro della Salute Robert Kennedy Jr. – è una battaglia tutta ideologica, che mescola nostalgia, marketing e campagne elettorali. A farne le spese, per ora, sono i produttori americani di dolcificanti, con i colossi del mais che vedono crollare le proprie azioni a Wall Street. Il solo annuncio ha fatto perdere l’8,9% a Ingredion, mentre Archer Daniels Midland ha lasciato sul terreno oltre sei punti percentuali.

Il messaggio politico è evidente: il presidente cavalca la retorica del ritorno “alla purezza” dei prodotti americani. Ma con risvolti paradossali. Perché lo sciroppo di mais è da decenni uno dei cardini dell’industria agroalimentare statunitense, ampiamente diffuso nelle bibite, nei dolci, nei prodotti confezionati. E viene prodotto proprio in quegli Stati del Midwest – Illinois, Iowa, Nebraska – che hanno sempre votato Trump in massa. Sostituirlo vorrebbe dire colpire l’economia dei suoi stessi alleati agricoli, senza contare i problemi logistici: la canna da zucchero cresce nel Sud, ma non in quantità sufficienti per rimpiazzare tutto il mais trasformato del Paese. Il che significherebbe, paradossalmente, aumentare le importazioni, proprio mentre la Casa Bianca torna a parlare di dazi e autarchia alimentare.

A ricordarlo è John Bode, presidente della Corn Refiners Association, che definisce la proposta una “scelta miope” destinata a produrre danni concreti: «Verrebbero persi migliaia di posti di lavoro, il reddito agricolo calerebbe e non ci sarebbe alcun guadagno in termini di salute pubblica». Ma è evidente che la logica economica qui c’entra poco. Quella che Trump porta avanti è una crociata identitaria, dove ogni merendina e ogni sorso di bibita diventano simboli di un ritorno all’ordine. L’America che immagina – e racconta – è un Paese dove il passato è sempre meglio del presente, anche se nessuno sa bene quale passato sia.

Non è la prima volta che Trump si occupa personalmente della Coca-Cola. Alla Casa Bianca era nota la sua passione per la Diet Coke, tanto da farsi installare un pulsante nello Studio Ovale per farsene portare una con un solo gesto. Ma nel 2021 era arrivata anche la rottura, quando l’azienda aveva preso posizione contro una legge elettorale voluta dai repubblicani in Georgia, lo Stato dove la Coca-Cola è nata. Da allora, l’amore si è trasformato in odio intermittente, fino a questa ennesima inversione.

E se l’accordo vero non c’è – o non c’è ancora – Trump ha comunque già vinto dal punto di vista mediatico. Il suo messaggio è passato: la Coca-Cola con lo zucchero di canna non è solo una bevanda, è una dichiarazione d’intenti. Un modo per dire agli americani: guardate, mi occupo anche di quello che bevete. Un modo per colpire le grandi aziende che non si allineano e al tempo stesso rafforzare il legame con un elettorato che si sente dimenticato, ma che sogna ancora l’America delle lattine rosse e delle ricette “originali”.

In parallelo, la Casa Bianca ha annunciato che oltre il 90% delle aziende americane di gelati ha accettato di eliminare i coloranti artificiali, mentre sono già in corso pressioni per bandire anche alcuni conservanti. Una strategia che unisce la retorica salutista di Kennedy Jr. con il populismo muscolare di Trump. Non importa se gli effetti sulla salute sono ancora discussi o se i dati scientifici non sono unanimi. L’importante è dare un messaggio forte, semplice, polarizzante. Meglio ancora se capace di far litigare economisti, medici e opinionisti.

La guerra di Trump alla Coca-Cola, dunque, non è una boutade estiva. È l’ennesima dimostrazione che per lui la politica è fatta anche di simboli, di atti teatrali, di sfide lanciate alle multinazionali in diretta social. Che poi la Coca-Cola cambi davvero ricetta o meno, conta poco. Quel che conta è dare l’impressione di controllare tutto, anche le bollicine.