Succede sempre così, in Calabria. Quando credi che si sia toccato il fondo, il fondo sprofonda. E quando finalmente sembra avvicinarsi una stagione di respiro, arriva la resa. In pieno agosto, mentre i turisti cercano il mare e i calabresi cercano un motivo per restare, il presidente della Regione Roberto Occhiuto se ne va. Non una dimissione qualsiasi. Non un congedo istituzionale, civile, rispettoso. Ma un addio furioso, un colpo di teatro, un video social in pieno stile reality, uno schiaffo alla democrazia e alla dignità di due milioni di persone. Una fuga. Una rottura. Una pagina nera, da aggiungere alla lunga enciclopedia del tradimento politico in Calabria.

Il paragone con Salvini e il Papeete è immediato, ma qui c’è di più. C’è il Pnrr, con le sue scadenze. C’è una Regione fragile, dove ogni giorno di vuoto pesa come un macigno. C'è fame di lavoro e dignità, c’è un sistema sanitario che non regge più. C’è una generazione che parte, un’altra che si rassegna, e una classe dirigente che, invece di guidare, si scanna. Non è solo il crollo di una giunta. È il collasso di un’illusione.

Roberto Occhiuto si era presentato come il presidente del fare. L’uomo solo al comando che avrebbe risollevato la Calabria. L’outsider azzurro che aveva promesso rigore, velocità, efficienza. Si è raccontato come il migliore d’Italia. E per mesi, anche grazie a una macchina comunicativa spietata, molti gli hanno creduto. Video, social, TV, un fiume di contenuti autoreferenziali. La Calabria che "ritorna al centro". Ma la realtà è più ruvida dei post su Instagram o Facebook. E oggi ci dice un’altra storia.

Ci dice che tutto si è sgretolato dall’interno. Niente nemici esterni, nessuna spallata dell’opposizione. Solo la logica spietata del potere. Assessori umiliati, capigruppo ignorati, partiti annientati. Una Regione trasformata in una monarchia digitale. E alla fine, l’esplosione. Con tanto di proclama: me ne vado, ma torno. Più forte di prima. Come se il governo di una terra martoriata fosse il set di una serie tv, un episodio da chiudere per passare al prossimo.

Ma non è finzione, purtroppo. È realtà. Una realtà in cui si rischia di perdere centinaia di milioni del Pnrr. Una realtà in cui la burocrazia impantanerà tutto per mesi: elezioni, formazione della giunta, avvio della nuova legislatura. Una realtà che ricade, come sempre, sulle spalle dei cittadini. E soprattutto, una realtà inquinata da un’inchiesta giudiziaria di cui si sa troppo poco ma che pesa troppo. Cinque ore di audizione, è legittimo sperare che la vicenda si chiarisca. È doveroso augurarsi che sia estraneo a ogni responsabilità. Ma chi rappresenta un popolo ha il dovere di difendersi, non di fuggire.

E allora cosa resta? Resta il vuoto. Una terra sospesa, ancora una volta. Un futuro congelato, come se la storia non riuscisse mai a ripartire davvero. Resta la ferita morale, più profonda di ogni sconfitta elettorale. Perché ciò che si è rotto, questa volta, è il patto tra rappresentanti e rappresentati. L’illusione che qualcuno potesse finalmente restare, invece di scappare. L’idea che la Calabria potesse salvarsi da sé.

La verità è che oggi tutto si ferma. E che da domani, ogni giorno perso sarà un regalo a chi vuole che questa terra resti com’è: povera, divisa, fragile. Ecco perché questo non è un caso politico. È una questione civile, etica, culturale. È la conferma che il vero problema della Calabria non è l’opposizione, non è lo Stato, non è nemmeno la criminalità. È la solitudine del potere. Quel vizio antico di credersi padroni e non servitori. Di usare la Regione come trono personale, invece che come luogo di riscatto collettivo.

Persino Carlo Calenda, in un momento di lucidità politica non comune, lo ha detto chiaramente: “Se fai troppo il bullo, finisce che ti fai male”. Ecco, Occhiuto si è fatto male. Ma chi ne paga il prezzo, come sempre, è la Calabria.

Ora serve una scossa. Una verità. Una nuova narrazione. Ma soprattutto serve una classe dirigente diversa. Che sappia restare, anche quando è difficile. Che sappia ascoltare, anche quando è scomodo. Che posti poco, parli il giusto e faccia molto. Perché se è vero, come scriveva lo stesso Occhiuto pochi giorni prima della fuga, che “siamo solo all’inizio”, allora bisogna decidere che inizio vogliamo.

Quello della rinascita, o l’ennesimo inizio di una fine.