Il duo torinesi giocava a mischiare l’aria di festa da villaggio vacanze con un immaginario post-apocalittico. E riascoltato oggi, il brano non suona vecchio. E forse, sotto sotto, ci invita ancora a ballare sull’orlo del disastro
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Certe canzoni estive, quando tornano a rimbombare nelle radio o nei mercati rionali in pieno agosto, sembrano innocue cartoline sonore: sdraio a righe, corpi unti di crema solare, gelati che si sciolgono troppo in fretta. Vamos a la playa dei Righeira, uscita nel 1983, è una di quelle melodie che ancora oggi, a distanza di oltre quarant’anni, riesce a infilarsi nella testa come un granello di sabbia in un costume da bagno. Ma dietro l’apparente leggerezza di quel “Vamos a la playa, oh oh oh oh” si nasconde un’ironia che, all’epoca, pochi colsero davvero.
Il duo torinese, con i suoi nomi d’arte esotici e le camicie hawaiane, giocava a mischiare l’aria di festa da villaggio vacanze con un immaginario post-apocalittico: il mare, nel testo, non è quello limpido e azzurro delle brochure turistiche, ma un’acqua stranamente azzurra per effetto delle radiazioni; la spiaggia è il luogo in cui si va non per abbronzarsi, ma dopo che “la bomba” ha cambiato tutto. Una satira in piena regola, che racconta l’epoca della Guerra Fredda senza proclami politici, ma con il sorriso beffardo di chi sa che la musica leggera può essere un cavallo di Troia più efficace di cento editoriali.
Forse il segreto del brano sta proprio in questo contrasto: il ritmo elettronico, sincopato e ballabile, che sembra volerci trascinare in pista, e un testo che invece descrive un mondo dopo la fine del mondo. È un capolavoro di ambiguità pop, come se i Beach Boys si fossero svegliati una mattina a Chernobyl.
Riascoltato oggi, Vamos a la playa non suona vecchio. Ha il fascino retro dei synth anni Ottanta, certo, ma parla ancora alla nostra epoca: in un’estate in cui il clima brucia e il mare cambia colore per ragioni che non hanno niente di turistico, il brano dei Righeira è meno un ricordo nostalgico e più una piccola profezia danzereccia. E forse, sotto sotto, ci invita ancora a ballare sull’orlo del disastro, perché a volte l’unico modo per sopportare l’ansia è trasformarla in un ritornello che non vuole andarsene.