Locri, provincia di Reggio Calabria. Il 16 ottobre del 2005 sono in corso le primarie di un centrosinistra già da allora alla ricerca di una sintesi tra le sue diverse anime. Quello che oggi si chiama campo largo, in quei giorni si chiama Grande alleanza democratica o più semplicemente “Unione” e a guidarla è Romano Prodi.

Il seggio locrese è stato allestito all’interno di Palazzo Nieddu, sede del Museo archeologico, proprio mentre Franco Fortugno, vicepresidente del consiglio regionale della Calabria, tiene banco nell’androne dell’antico e glorioso stabile. Una decina di persone gli è intorno e lo ascolta discettare delle ultime novità in tema di politica e di governo regionale. Nessuno si accorge che un uomo incappucciato e vestito di nero si dirige verso il gruppetto a passo accelerato. In mano, stringe una pistola. Nel giro di pochi secondi arriva davanti a Fortugno, gliela punta contro e fa fuoco per cinque volte. Cinque proiettili che vanno tutti a segno, uccidendolo sul colpo, mentre il sicario se la dà a gambe con un complice che lo aspetta di fuori alla guida di un’auto. Sono da poco passate le 17 e 22 minuti e Il delitto più eccellente della politica calabrese è servito. A commetterlo, come in quelle fiabe che mettono paura anche agli adulti, è stato un uomo nero.

La vittima

Francesco Fortugno nasce cinquantaquattro anni prima a Brancalone, sempre in provincia di Reggio Calabria. Medico specializzato in chirurgia generale, primario dell’ospedale di Locri, coltiva fin da giovanissimo una passione per la politica. Percorso lineare il suo: Democrazia cristiana prima di “Mani pulite” e Partito popolare poi; tanto impegno sindacale nella Cisl medici e qualche esperienza amministrativa di peso come un assessorato a Reggio Calabria e il ruolo di vicesindaco a Locri. Il consiglio regionale lo assaggia nel 2001 da subentrato, ma in quel 2005 vi fa ingresso dal portone principale, con un risultato elettorale sorprendente: ben 8500 voti ottenuti nella lista della Margherita a supporto di Agazio Loiero presidente. Più che logico, dunque, che dopo la sua morte, le indagini partano proprio da qui: dalla fine.

Indagini lampo

Per gli investigatori dell’epoca, infatti, che il delitto sia maturato in un contesto politico-mafioso, è una certezza della prima ora. E nel giro di pochi mesi, gli eventi sembrano dare loro ragione. Quando un’operazione antimafia porta in carcere alcuni esponenti del clan Cordì, ‘ndrina locrese, uno degli indagati, Bruno Piccolo, decide di collaborare con la giustizia e rivela a chi indaga i nomi degli assassini di Fortugno: a premere il grilletto contro il politico sarebbe stato Salvatore Ritorto, con Domenico Audino nel ruolo di autista. Alle dichiarazioni di Piccolo si affiancano quelle di Domenico Novella, un altro pentito, che consentono di stringere il cerchio pure sui mandanti: sotto i riflettori, finiscono i nomi di Alessandro e Giuseppe Marcianò, padre e figlio, rispettivamente caposala e infermiere dell’ospedale di Locri.

Il movente

Dall’incrocio delle loro confessioni affiora il presunto movente dell’uccisione di Fortugno: il medico doveva pagare con la vita quell’exploit elettorale che lo aveva portato ai vertici della politica regionale, mandando a monte così i progetti di padre e figlio. Alle elezioni, infatti, i Marcianò, elementi vicini al clan Cordì, avevano supportato un altro candidato, Domenico Crea, surclassato da Fortugno proprio perché dalle sezioni di Locri, nonostante le loro promesse, erano usciti per lui pochissimi voti. A quel punto, dunque, il caposala avrebbe commissionato l’omicidio a Ritorto proprio per recuperare terreno nei confronti del suo politico di riferimento, ben sapendo che dopo la morte di Fortugno, lo stesso gli sarebbe subentrato in consiglio regionale.

Il processo

Un piano banale, ma al tempo stesso un po’ contorto, che in seguito sarà tema di un processo lungo e tormentato. Altri possibili moventi si affiancheranno nel corso degli anni: uno porta a uno scandalo scoppiato anni prima nell’Università di Messina, un altro si orienta sulla pista sanitaria, una terza ipotesi vuole Fortugno testimone scomodo (e dunque da eliminare) di un’estorsione subita da un suo familiare. Nessuna di queste teorie resisterà agli scossoni del tempo, e alla fine resta in piedi solo la pista che porta ai Marcianò. Il processo si conclude con la condanna all’ergastolo di mandanti ed esecutori materiali, con un’appendice thrilling in Cassazione per Alessandro Marcianò.

Il terzo livello

«Sono soddisfatta per me e i miei figli. Continuerò a battermi fino a quando non si arriverà ad incastrare anche il terzo livello di cui si parla da tempo». Sono le parole che Maria Grazia Laganà, la vedova Fortugno nel frattempo eletta in Parlamento, pronuncia subito dopo la sentenza, ma le sue aspettative resteranno tali. Il sospetto che sull’assassinio di suo marito non sia stato detto tutto, non ha mai trovato conferme. Domenico Crea, anche lui medico di professione, sarà arrestato e poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito di un’inchiesta che, nel 2008, mette in luce l’ingerenza dei clan nel settore della sanità pubblica reggina, ma il suo nome – seppur finito nel tritacarne della cronaca – non sarà mai accostato in termini giudiziari alla morte violenta del collega. Il cosiddetto terzo livello, dunque, resta un fantasma che aleggia sulla vicenda. E non è l’unico.

Questi fantasmi

L’altro, per certi versi ancora più inquietante, è quello di Bruno Piccolo, il pentito che per primo ha orientato gli investigatori sulla strada di una possibile verità. Il 16 ottobre del 2007, nella seconda ricorrenza triste del fattaccio di Palazzo Nieddu, Piccolo si uccide impiccandosi a un termosifone in Abruzzo, nella località protetta in cui era stato trasferito. Un suicidio misterioso, preceduto da alcuni tentativi di convincerlo a ritrattare operati dal suo ex gruppo criminale. In una lettera, mai giunta a destinazione perché intercettata per tempo dagli inquirenti, il suo vecchio boss si rivolgeva a lui così: «L’importante in questi luoghi è stare tranquilli e farsi la galera con onestà. Parlare poco, solo quando è necessario. Devi uscire a testa alta». Vent’anni dopo, di Franco Fortugno e della sua triste sorte, si parla ancora poco, anche meno del necessario. E non si sta affatto tranquilli.