C’è un filo sottile che unisce gli anni Ottanta italiani a una precisa sensazione di libertà sospesa: quella che si provava nelle estati che sembravano non finire mai, tra l’odore di salsedine, i primi motorini giapponesi, e le radio libere che passavano in continuamente le hit del momento. È in questo orizzonte che Gente di mare, interpretata da Umberto Tozzi e Raf, diventa non solo un successo discografico del 1987, ma anche una sorta di colonna sonora emotiva di un’epoca.

L’Italia di fine anni Ottanta era un paese che si affacciava su un mondo in rapida trasformazione. La crescita economica degli anni precedenti aveva portato nelle case un benessere diffuso, almeno in apparenza: televisori a colori in ogni salotto, vacanze estive che si trasformavano in piccoli riti collettivi, nuove mode importate dall’America e un’aria di fiducia nel futuro.

Le spiagge diventavano luoghi di socialità e di spettacolo: sdraio e ombrelloni fitti, jukebox nei bar, ragazzi che si tuffavano dagli scogli, gelati confezionati come trofei di un pomeriggio assolato. La villeggiatura non era ancora frammentata in weekend mordi e fuggi: ci si spostava per settimane intere, si viveva il mare come un tempo sospeso, un altrove in cui tutto poteva accadere.

Dietro la leggerezza apparente di Gente di mare, si cela un sentimento più complesso. La “gente di mare” non è solo chi naviga o vive sulle coste, ma un simbolo di chi rifiuta le regole rigide della terraferma, scegliendo il movimento, l’orizzonte aperto, il vento come compagno. È una canzone che parla di libertà, ma anche di estraneità: chi vive vicino all’acqua sembra vivere un tempo diverso, con valori propri, a volte incompresi da chi rimane a terra.

Questa dualità riflette il desiderio degli anni Ottanta di scappare dalla routine, di allontanarsi dall’ordinario per inseguire un sogno di leggerezza perenne. Non a caso il brano, presentato all’Eurovision Song Contest, portava in Europa l’immagine di un’Italia luminosa, sensuale, romantica, ma anche orgogliosamente slegata da certi vincoli.

Sul finire del decennio, le estati avevano già assunto un’aura da cartolina: i Walkman Sony con le cuffie arancioni, le videocassette VHS che immortalavano gite in barca e tramonti infuocati, i costumi sgargianti e le magliette oversize con scritte fluo. C’era un senso di pienezza, come se ogni estate dovesse essere “la più bella”, e Gente di mare ne era la colonna sonora perfetta: melodica, aperta, con quel ritmo che sapeva di partenze e ritorni.

Ma sotto la superficie dorata di quegli anni, si muoveva anche una lieve malinconia: la consapevolezza, forse inconscia, che quella stagione di leggerezza avrebbe avuto una fine, e che presto il mondo sarebbe cambiato.

Oggi Gente di mare non è solo un ricordo musicale: è un frammento di identità collettiva. È il suono di un’Italia che si specchiava nel Mediterraneo, orgogliosa della propria luce e del proprio mare, ma anche desiderosa di raccontare sé stessa in una chiave universale. È una canzone che, riascoltata, restituisce non solo il sorriso di quegli anni, ma anche il brivido di libertà che si provava guardando l’orizzonte, quando l’estate sembrava infinita.