C’erano estati che cominciavano molto prima di giugno. Bastava il primo odore di salsedine portato dal vento, un vestito leggero appeso alla finestra, la radio che del bar sotto casa. Erano gli anni ’80: il mare era un sogno collettivo, e ci si credeva senza esitazioni. Le spiagge si riempivano di voci e di passi scalzi, il sole scaldava la pelle, e la vita sembrava facile, come certe fotografie con il bordo bianco che ancora si tengono nei cassetti.

Basta guardarle per capire quanto fossero belli quegli anni, quanto fossero spensierati e sereni.

Sotto gli ombrelloni a righe, tra un gelato Eldorado e una partita di racchettoni, le radio libere, che iniziavano a trasmettere sin dagli ultimi anni '70, e i juke-box delle gelaterie, lanciavano in aria canzoni che sarebbero rimaste per sempre: Ivana Spagna con Call Me, Raf con Self Control, i Righeira che urlavano Vamos a la playa come fosse una dichiarazione d’intenti. Ma poi arrivò lei, Giuni Russo, con la sua voce impossibile da dimenticare, capace di salire e scendere come una vela al vento.

“Un’estate al mare” non era solo un tormentone: era una cartolina sonora, ironica e lieve, ma percorsa da una vena di malinconia che solo i più attenti coglievano. Era scritta da Franco Battiato e Giusto Pio, e sotto la superficie leggera del testo c’era l’impronta di un’artista che non amava fermarsi al primo strato. Giuni aveva già alle spalle altri successi, e avrebbe poi inciso perle come "Alghero", "Il mare dentro" e l’intensa "Morirò d’amore", uno dei suoi testamenti musicali e d'amore. La sua era una voce duttile, coltissima, capace di spaziare dalla canzone pop all’opera, dalla sperimentazione elettronica alle romanze antiche. Tra le più grandi voci del panorama italiano – e non solo – mondiale. Capace di cantare di tutto.

In quegli anni di spalline larghe, lacca nei capelli e costumi sgargianti, lei portava un’eleganza straniera, come se fosse appena scesa da una nave attraccata lontano. Si muoveva nel pop con la grazia di chi sa che il vero lusso è non avere paura di cambiare. Mentre altri si accontentavano di restare in classifica, lei cercava la bellezza anche dove il pubblico non sempre seguiva: registrava album in francese, flirtava con il jazz, sfiorava il sacro.

Riascoltarla oggi è come aprire un vecchio mangianastri trovato in soffitta: senti ancora il fruscio del nastro, il rumore del vento che entra nel microfono, e poi quella voce che sembra dirti che la spensieratezza non è mai soltanto spensieratezza. È un’arte, una conquista, a volte persino una maschera. Anzi, quasi sempre, la spensieratezza è soltanto una maschera!

E così, ogni volta che parte quel “Un'estate al mare…”, non è solo un ritornello: è un invito a tornare in quel tempo in cui le cabine color pastello, il profumo di crema solare alla cocco e le urla dei venditori di cocco fresco erano parte di un’unica, infinita canzone d’estate. Tornarci non soltanto con il ricordo, ma con la realtà. E da qualche parte, lontano ma non troppo, Giuni canta ancora.