Secondo l’Istituto di statistica, l’inserimento di giovani con competenze digitali aumenta la produttività. Ma l’Italia resta un Paese vecchio, dove i salari reali sono ancora inferiori del 9% rispetto al 2021
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Altro che “bamboccioni”: i giovani italiani sono una risorsa scarsa, e andrebbero trattati con i guanti bianchi. A dirlo non è un sindacato, ma l’Istat, che nel corso dell’audizione parlamentare sul Documento di programmazione economico-finanziaria ha rivolto un vero e proprio monito al mondo delle imprese. «Nelle aziende – spiegano i tecnici – la piramide demografica è ormai spostata verso i 50enni. Se vogliamo crescere, dobbiamo capire che i giovani sono un capitale prezioso e non rimpiazzabile».
Un richiamo severo a un sistema produttivo che continua a vivere di precarietà e stipendi bassi, spingendo molti ragazzi formati e competenti a cercare fortuna all’estero. L’Italia, sottolinea l’Istat, «non è più un Paese che può contare su un contributo massivo della forza lavoro, ma deve puntare su un contributo qualitativo». In altre parole, la crescita passa dall’innovazione, e l’innovazione passa dai giovani.
Nel loro intervento, i rappresentanti dell’Istituto di statistica hanno ricordato un dato significativo: «Dalle analisi risulta che l’inserimento di giovani con competenze digitali nelle aziende determina un incremento della produttività. Assumerli conviene». Non solo per motivi sociali, ma economici: il capitale umano formato e motivato produce di più.
Eppure, i numeri raccontano un’altra realtà. In Italia, i salari restano tra i più bassi d’Europa, e i giovani sono i più penalizzati. «È in corso un lento recupero delle retribuzioni reali – ammette l’Istat – ma siamo ancora sotto del 9,1% rispetto ai livelli di gennaio 2021». Dopo anni di inflazione e stagnazione, la busta paga media non basta a compensare il costo della vita, soprattutto per chi muove i primi passi nel mercato del lavoro.
Il quadro demografico, intanto, peggiora. L’età media dei lavoratori cresce, i pensionamenti aumentano, e le nuove leve faticano a entrare. In molte imprese, l’età media supera ormai i 50 anni, e l’assenza di ricambio generazionale si traduce in minore innovazione, rigidità organizzativa e perdita di competitività.
A questo si aggiunge un fenomeno che, seppur in lieve miglioramento, resta allarmante: quello dei Neet. Nel 2024, la quota di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano è del 15,2%. Un calo importante rispetto al 23,7% del 2020, ma con punte ancora drammatiche nel Sud: 26,2% in Calabria, 25,7% in Sicilia, 24,9% in Campania, 21,4% in Puglia. Tra le donne la percentuale è ancora più alta (16,6%) rispetto agli uomini (13,8%).
«È un Paese che deve cambiare passo – sottolinea Cristina Freguja, direttrice del Dipartimento per le statistiche sociali e demografiche dell’Istat – specialmente sulla produttività, e auspicabilmente anche sui salari, in particolare quelli dei giovani. Entrano persone formate, pronte a innovare, ma se non trovano spazio e riconoscimento, se ne vanno».
E i dati lo confermano: l’emigrazione giovanile continua, mentre la natalità scende ai minimi storici. Un Paese che invecchia e che, pur lamentando carenza di manodopera qualificata, non riesce a valorizzare chi ne possiede le competenze. Un paradosso che l’Istat sintetizza in poche parole: “i giovani sono risorse scarse, ma spesso trattate come risorse sostituibili”.
L’appello dell’Istituto è chiaro: per invertire la rotta servono politiche attive del lavoro, formazione mirata e stipendi dignitosi. Perché la produttività non si impone per decreto, ma nasce da un clima aziendale che stimoli motivazione e fiducia. E se le imprese continuano a considerare i giovani un costo anziché un investimento, il rischio è quello di restare senza futuro.
Un futuro che, avverte l’Istat, si gioca tutto sulla capacità di innovare: «Il capitale umano è la chiave della competitività. Ma va protetto, valorizzato e retribuito in modo equo. Trattarlo con i guanti bianchi – spiegano i tecnici – non è una metafora, è una necessità economica».
In sintesi, dietro il linguaggio asciutto dei numeri, c’è un messaggio politico preciso: o l’Italia comincia a investire seriamente sui suoi giovani, oppure si condanna all’immobilismo. Perché la nuova ricchezza non si misura più in tonnellate di produzione, ma in idee, competenze e creatività. E quelle, oggi, scarseggiano più del petrolio.