La candidatura è arrivata come un fulmine in un cielo già carico di tensioni. A poche ore dall’ingresso degli Stati Uniti al fianco di Israele nella nuova escalation con l’Iran, il governo del Pakistan ha annunciato ufficialmente la proposta di conferire a Donald Trump il Premio Nobel per la pace 2026. Una decisione che, per molti osservatori internazionali, appare quantomeno sorprendente, ma che Islamabad rivendica con determinazione.

A giustificare la proposta sarebbe il ruolo svolto dall’ex presidente statunitense nella recente crisi tra India e Pakistan, in particolare per il suo «intervento decisivo e la leadership determinante» come ha affermato il portavoce del governo guidato da Shehbaz Sharif. Una mossa, questa, che sembra inserirsi in una strategia diplomatica più ampia per rafforzare i rapporti con Washington, in un momento in cui gli equilibri regionali sono più instabili che mai.

La notizia ha riacceso l’interesse di Trump per il prestigioso riconoscimento. Non è la prima volta che il tycoon americano manifesta il desiderio, e in qualche modo l’aspettativa, di ricevere il Nobel per la pace. In un lungo post pubblicato su Truth Social, l’ex presidente ha elencato i risultati ottenuti sul fronte diplomatico durante e dopo il suo mandato, sottolineando con amarezza che, a suo avviso, «qualsiasi cosa faccia, non me lo daranno mai».

«Ho contribuito alla pacificazione tra Ruanda e Congo», ha scritto, «una guerra tra le più violente e sanguinose degli ultimi decenni. Eppure, non riceverò alcun riconoscimento». Trump ha poi ricordato anche il suo ruolo nei negoziati tra Serbia e Kosovo, nella gestione della difficile relazione tra Egitto ed Etiopia per la questione del Nilo e, soprattutto, negli Accordi di Abramo in Medio Oriente, che puntavano a normalizzare i rapporti tra Israele e diversi Paesi arabi.

Molti dei dossier citati da Trump restano però tutt’altro che risolti. La tregua tra Ruanda e Congo, ad esempio, è considerata da molti analisti più un compromesso commerciale che una vera azione di pace: il conflitto si è fermato dopo che Kinshasa ha concesso alle aziende americane l’accesso alle preziose risorse minerarie della regione, escludendo la Cina. Similmente, la tensione tra Egitto ed Etiopia per la grande diga sul Nilo resta latente, e potrebbe degenerare.

Quanto agli Accordi di Abramo, seppur accolti positivamente da molti governi della regione, il loro impatto è stato ridimensionato dagli ultimi sviluppi in Medio Oriente. La recente ondata di violenze tra Israele e Iran ha di fatto congelato ogni nuova adesione e messo in discussione la tenuta degli accordi già siglati.

Eppure, per Trump questi episodi costituiscono un curriculum pacificatore più che valido. «Non importa quale sia l’esito dei conflitti in corso, la gente lo sa», ha scritto concludendo il suo messaggio, «e questo è ciò che conta per me».

La proposta di Islamabad si inserisce in un contesto complesso. La regione dell’Asia meridionale resta una delle più delicate dal punto di vista geopolitico, con India e Pakistan in stato di rivalità permanente fin dalla spartizione del 1947. In questo scenario, la scelta di candidare Trump sembra essere, più che un atto di riconoscimento, un gesto politico volto a rafforzare il legame con Washington, anche in funzione di contenimento dell’influenza cinese nella regione.

Dall’India, le reazioni sono state piuttosto fredde. Il governo Modi, da tempo impegnato in una politica estera assertiva, ha evitato commenti ufficiali, ma fonti diplomatiche riferiscono di un certo fastidio per una mossa che potrebbe essere letta come uno schiaffo politico. E in effetti, nelle ultime comunicazioni ufficiali tra Nuova Delhi e Washington, i riferimenti al ruolo statunitense nei negoziati sono stati minimi, mentre è stata ribadita con forza la versione indiana sul cessate il fuoco.

In passato, altri leader hanno ricevuto il Nobel per la pace in momenti controversi. L’esempio più citato è quello di Barack Obama, premiato nel 2009 “per la sua visione di un mondo senza armi nucleari”, a pochi mesi dal suo insediamento. Una scelta che suscitò polemiche, anche alla luce del successivo impegno militare mantenuto in Afghanistan, Iraq e Libia.

Trump, che da sempre vive il confronto con Obama come una sfida personale, sembra non essersi ancora rassegnato. “Perché lui sì e io no?”, sembra essere la domanda implicita in ogni suo post. Di certo, finché ci sarà qualcuno disposto a candidarlo – come ora il Pakistan – l’argomento resterà vivo. E il Norwegian Nobel Institute, a Oslo, continuerà a ricevere lettere ufficiali con la sua firma.

Il comitato, finora, non ha commentato. Ma la candidatura resta formalmente valida. E l’idea di Trump Nobel per la pace, per quanto improbabile, non è ancora del tutto archiviata nonostante le bombe sull’Iran.