I semi per la nomina di Catanzaro come capoluogo di regione venivano già gettati negli anni ‘60. Dalla designazione effettiva, avvenuta nel 1970, la città ha subito numerosi cambiamenti urbani, ma non ha mai perso il suo fascino storico derivato da un’epoca in cui ogni quartiere rassomigliava a un borghetto degno di interesse. Ed è in questo tempo che le storie di Francesco e Gina si intrecciano fino a crearne una più grande, nata da una piccola bugia che poi è divenuta una solida promessa. Oggi ci raccontano le loro estati spensierate.

«Da ragazzina ero una peste! Una peste da piccola, da sposata e da vecchia. Ero e sono molto vivace. Ho sempre dato il massimo di me stessa. Anche quando ho incontrato lui, che è più timido e bonaccione, sono sempre stata il suo sostegno, quella spinta in più che in diverse occasioni gli è servita. Da piccoli non giocavamo insieme perché, sebbene non abitassimo proprio lontani, non eravamo nemmeno vicini di rione. Poi avevamo abitudini e compagnie diverse. Erano anni in cui i gruppi di amici si formavano in base all’appartenenza allo stesso rione» – racconta Gina.

Fermata “Memorie di giochi e gare sportive”

Francesco ricorda poi le giornate passate anche con gli amici: «Da adolescente ricordo che facevamo una colletta per raccogliere i soldi per la spesa e poi ci riunivamo a casa di un amico, a turno. Mangiavamo, ballavamo, consumavamo tanti giradischi tenendoli accesi dal pomeriggio alla sera. A partire dal ‘48 e negli anni a seguire, mi ricordo nitidamente le gare automobilistiche. Le vedevo affacciandomi da casa mia perché partivano dalla zona Bellavista. Facevano il giro della regione. Da Catanzaro a Reggio e poi fino a Cosenza. C’erano anche le gare dei motociclisti come Alfieri per citarne uno. Oppure, le gare ciclistiche che percorrevano Catanzaro-Soverato. Si facevano anche le sfilate dei laureati. Partivano da Bellavista, continuavano per Piazza Roma, Corso Mazzini e arrivavano a Piazza Matteotti.

Io sono cresciuto in un posto strategico perché potevo assistere a tutte queste cose. Vicino a me c’era anche la funicolare. Noi ragazzini – continua ancora – andavamo dietro la stazione a esplorare, fin quando non arrivavano i vigili a mandarci via. Giocavamo molto per strada. Per esempio, con i tappi di birra facevamo una pista. Poi ognuno costruiva la sua macchinina personale, attaccando una chewingum sotto a un tappo per renderlo più pesante. Lo scopo era mandarlo il più vicino possibile al traguardo spingendola con il dito, senza però sforare; se andava fuori pista, bisognava ricominciare dalla partenza.

Costruivamo anche lo "strombo” [strummolo]: alla punta di un pezzo di legno a forma conica, inserivamo un elemento di ferro robusto e appuntito. Attorno allo strombo veniva arrotolata una corda. Quando arrivava il proprio turno, si prendeva un pezzo di corda e lo si arrotolava alla mano o al polso, per poi liberare l’oggetto con forza sullo strombo di qualcun altro. Vinceva chi riusciva a rompere l’oggetto altrui. Solitamente erano i ragazzini più grandi perché avevano più forza. Poi giocavamo anche al “cavallo sopra-sotto”: un gruppetto di bambini si piegava a cavalcioni a terra formando una sorta di trampolino, mentre gli altri dovevano saltare su di loro per poi atterrare superando tutti. Giocavamo anche a mosca cieca, nascondino, insomma altri giochi che esistono anche oggi».

Fermata “Memorie di battesimi di pezza”

Ma anche Gina racconta i giochi di un tempo: «Anche noi femminucce giocavamo a mosca cieca, nascondino, la campana. Giocavamo anche con le bambole. Molto spesso non erano vere bambole perché avevano un costo poco accessibile. Le realizzavamo a mano con uno strofinaccio modellato proprio come una figura umana.

Ogni bambola nuova riceveva un battesimo. Organizzavamo l’intera cerimonia con tanto di banchetto: biscotti da latte, caramelle colorate e il “liquore” (niente di alcolico) inserito nelle bottigline rubate alle mamme. Sembrava un vero battesimo.

Un gioco che ereditavamo dai maschi - perché noi femminucce eravamo peggio dei maschietti - era “u spizzingulu”: due bastoni, uno lungo, uno più corto e dalle estremità appuntite; quest’ultimo veniva lasciato a terra e fatto saltare in aria colpendolo con il più lungo (detto “vastuna”, bastone). Quando raggiungeva una certa altezza, veniva colpito nuovamente dal bastone per farlo andare il più lontano possibile. I maschi non ci facevano giocare con loro e quindi ci prendevamo la nostra rivincita copiando i loro giochi tra di noi. Però erano molto rispettosi, in fin dei conti tutte le famiglie si conoscevano e non si permettevano di mancarci di rispetto».

Fermata “Memorie di lavoro”

Gina: «I genitori erano meno permissivi al tempo. Iniziai a lavorare presto come parrucchiera. Avevo il coprifuoco fissato alle 20.30. Se avessi sforato, i miei non mi avrebbero più concesso di andare a lavorare. Noi, invece, da ragazzini volevamo farlo perché cercavamo di essere autonomi nelle spese. Per noi era anche abituale andare al mare con la famiglia. In realtà non ricordo di esserci mai andata con mio papà perché morì quando avevo tredici anni. Però con mio fratello e le mie sorelle sì. Le più grandi badavano alle più piccole. Ci tenevamo tutte per mano fino a raggiungere la fermata del pullman. Ognuno aveva il suo compito, anche lungo la strada per raggiungere il mare».

Fermata Memorie di conquiste”

Poi il racconto dell’incontro: «Una sera, all’uscita dal lavoro, mi accorsi che un ragazzo mi stava seguendo. Pioveva. Intanto io affrettavo il passo. Io avevo paura, avevo sedici anni. Io allungavo il passo, lui allungava il passo. A un certo punto, prendendomi di coraggio, gli dissi detto:”Ma che cosa vuoi?” e lui dandomi del voi mi chiese se potesse parlarmi, ma io risposi di essere fidanzata. Incredulo, perché non mi aveva mai vista accompagnata, mi chiese una foto del mio fidanzato. L’indomani gli portai una fotografia di me abbracciata a mio fratello, vestito da militare, per giustificare l’assenza di questo mio ipotetico fidanzato. Inutile dire che non ci cascò, notando una chiara somiglianza tra me e mio fratello. Continuando a vederci così, sera dopo sera, ci mettemmo insieme. Io avevo 16 anni, lui superava i 20. Dopo un paio di anni vennero a casa i suoi genitori a parlare con mia madre del matrimonio. Io non volevo, ero terrorizzata. Non tanto per mia mamma, quanto per mio fratello con cui avevo un legame molto stretto (che dura ancora oggi). Però, fortunatamente la proposta fu accolta molto bene e ci sposammo».