L’ondata di indignazione che si è accesa attorno al caso di Aboubakar Soumahoro appare, a uno sguardo meno emotivo, più come un sintomo che come una spiegazione. Concentrarsi sul singolo episodio, infatti, rischia di oscurare una trasformazione ben più profonda che riguarda il modo in cui, in Italia, è stata progressivamente smontata l’idea stessa di politica come piano, attività organizzata.

Negli ultimi decenni si è affermato, con un consenso trasversale, un processo di delegittimazione dei partiti intesi come luoghi di formazione, selezione e responsabilizzazione della classe dirigente. Al loro posto si sono imposte strutture fragili, spesso temporanee, pensate più per la competizione elettorale che per l’elaborazione di una visione di lungo periodo. Questo svuotamento è stato accompagnato da riforme elettorali improvvisate e contraddittorie, che hanno inciso negativamente sulla rappresentanza e sulla qualità della democrazia, rendendo sempre più opaco, per così dire, il rapporto tra elettori ed eletti.

Parallelamente, si è diffusa una concezione distorta della politica, presentata come un’attività che dovrebbe fondarsi esclusivamente sulla “purezza” morale o sulla buona volontà individuale. In questa prospettiva, il politico non è più visto come qualcuno che esercita una funzione complessa, fatta di competenze, mediazioni e responsabilità, ma come una figura che dovrebbe incarnare un ideale etico astratto. Il risultato è stato un progressivo discredito nei confronti della professionalità politica, assimilata a un vizio anziché riconosciuta come una necessità in sistemi democratici avanzati.

A questa svalutazione si è aggiunta la demonizzazione della mediazione, elemento essenziale di ogni democrazia pluralista. La politica organizzata, con le sue regole e i suoi passaggi intermedi, è stata descritta come un ostacolo, mentre si è celebrata una politica “diretta”, orizzontale, priva di filtri. Un modello che prometteva partecipazione e autenticità, ma che nella pratica si è spesso tradotto in improvvisazione, slogan e leadership effimere, incapaci di reggere alla complessità delle decisioni pubbliche.

Paradossale è stata, poi, la battaglia contro il finanziamento pubblico ai partiti, condotta in nome di una presunta moralizzazione della vita politica. In molti casi non ci si è resi conto che l’eliminazione di quelle risorse non ha reso la politica più indipendente, ma l’ha consegnata ancor di più a interessi privati e a forme di finanziamento legate a gruppi di pressione e lobby. Il problema non era tanto l’esistenza di un sostegno pubblico, quanto l’assenza di regole chiare ed efficaci sul rapporto tra politica e interessi economici.

Alla luce di tutto questo, stupirsi che il sistema produca casi problematici o figure inadeguate appare quantomeno ingenuo. Non si tratta di rimpiangere modelli del passato o di idealizzare il Novecento, ma di riconoscere che l’attuale assetto – fatto di partiti ridotti a contenitori elettorali, candidature decise in base alla visibilità mediatica e altri fattori risibili e partecipazione limitata ai rituali dei gazebo – ha mostrato tutti i suoi limiti. Le evidenze accumulate dovrebbero spingere a una riflessione seria: continuare su questa strada significa accettare che le distorsioni non siano eccezioni, ma conseguenze inevitabili di un impianto sbagliato.