A meno che una persona non abbia due neuroni che vagano a casaccio nel vuoto, come accade nel cervello di Jovanotti quando deve dire qualcosa di mediamente sensato, non penso che ci sia ombra di dubbio che quello che sta accadendo a Gaza è sovrapponibile a quanto accaduto durante la Seconda Guerra mondiale nei Lager europei.

Anzi, per certi versi, la pulizia etnica in atto nella striscia di Gaza è ancora più grave, perché la distruzione di intere famiglie, le fucilazioni indiscriminate di bambini, il sistematico e scientifico annientamento di una intera popolazione avviene alla luce del giorno, ripresa da ogni angolazione in diretta streaming, è un orrore che si compire nella banale normalità del quotidiano, come se fosse un olocausto soft, figlio di una guerra smart o green. Per decenni, il popolo tedesco è stato accusato di aver chiuso gli occhi di fronte all’orrore dei lager di sterminio. Si è detto che i tedeschi si fossero consapevolmente voltati dall’altra parte, facendo finta di non vedere.

Pur nutrendo da sempre un certo scetticismo verso l’idea che un intero popolo debba essere ritenuto corresponsabile delle decisioni del proprio governo, se adottiamo lo stesso metro di giudizio, oggi non si può che constatare come sia l’intero Occidente a voltarsi altrove. Anzi, a essere più precisi, non solo gli Stati Uniti e parte dell’Unione Europea risultano complici della violenza cieca perpetrata contro il popolo palestinese, ma, mentre Israele porta avanti una pulizia etnica che non ha precedenti daldopoguerra, il dibattito politico occidentale, soprattutto quello italiano, riesce a produrre soltanto una discussione grottesca e aberrante: quella sul nome da dare a questo massacro.

I difensori della Costituzione, i baluardi dell’antifascismo, come la Segre, Parenzo o Saviano, si stanno prodigando in esibizioni ed affermazioni grottesche per non condannare Israele, con il risultato che il dibattito sull’uso o meno del termine “genocidio” è diventato letteralmente surreale.

La distruzione di un popolo viene trattata come un nuovo diversivo, se ne parla con la stessa superficialità idiocratica sdoganata dalla Pandemia, Gaza è a tutti gli effetti la nuova “mascherina”, il nuovo tappo che non si stacca dalla bottiglia, il nuovo Garlasco. La morte è diventata un oppiaceo mediatico da servire nei talk show, mentre le persone comuni, che non si bevono più queste idiozie, mostrano uno sdegno unanime, rendendo palese come ormai i cittadini italiani siano dotati di una saggezza e di una sensibilità maggiore di chi li governa.

Se da Jovanotti, autore di orrori musicali come “Radio Baccano” e “Sei come la mia moto”, certe uscite possono anche risultare prevedibili ed in linea con il suo valore artistico, ben più inquietante è infatti il coro di intellettuali che, tra un aperitivo, uno spritz in spiaggia ed una digressione filosofica, si interrogano, con grande serietà ed impegno, su quale denominazione adottare per una pulizia etnica in modo tale da non urtare la sensibilità delle comunità israeliane. Una follia vera e propria. Un po’ come se nel 1943, in Germania o in Italia, si fosse aperto un dibattito su come chiamare le Leggi Razziali in modo più “cool”.

Viviamo in una realtà in cui Israele ha brandizzato il genocidio: se muori per una pulizia etnica compiuta dopo il 1945, è diverso, è diversamente grave. Evidentemente c’è anche una sorta di dress code: senza Zyklon-B non si entra nel club dei morti di Serie A.

Naturalmente gli stessi intellettuali e la stessa classe politica che con tanta lena disquisiscono sul termine giusto da usare per definire un massacro, trovano ogni sofismo per giustificare le azioni di un criminale, Benjamin Netanyahu, che, in un mondo appena un po’ più normale, sarebbe già stato arrestato, processato e condannato a morte per crimini contro l’umanità. Il suo operato viene sistematicamente difeso dagli alfieri della democrazia come reazione ai fatti del 7 ottobre, come se quell’attacco, per quanto tragico, possa legittimare la distruzione sistematica e programmata di un intero popolo. Non c’è niente al mondo che possa giustificare 18.500 bambini uccisi e 50.000 feriti, perché è qualcosa di vergognoso. Radere al suolo Gaza perché al suo interno si trova Hamas equivale a immaginare che qualcuno, negli anni ’70, avesse raso al suolo l’intera Italia per sconfiggere le Brigate Rosse. Anche in questo caso, siamo di fronte a un’argomentazione indegna, frutto di una retorica ipocrita che continua a gravare, come un macigno, sulla coscienza dell’Occidente e dei suoi leader. Quello che è tragicomico è che questi sono gli stessi leader che non esitano a definire Vladimir Putin un criminale di guerra, salvo poi stringere accordi con regimi autoritari, di fare affari con le teocrazie ed indicare le autocrazie dell’Europa orientale addirittura come modelli di democrazia. Una dissociazione cognitiva talmente palese da rasentare la patologia. Di fronte a tale schizofrenia morale, persino Freud avrebbe alzato le mani e dichiarato la resa.

Ma veniamo al punto che nessuno dirà mai. La verità, che molti sanno ma che nessuno vuole ammettere, è che la storia ci sta dimostrando che la nascita dello Stato di Israele rappresenta uno dei più grandi fallimenti politici del Novecento. Un goffo e disperato tentativo di riparare all’orrore dell’Olocausto, che ha portato solo guerre e che ha scaricato il peso della colpa, non su chi aveva sterminato gli ebrei, ma su un territorio e un popolo che con Auschwitz non avevano nulla a che vedere. Ma questo non lo dico certo io, lo hanno scritto anche autorevoli intellettuali israeliani: da Ilan Pappé a Shlomo Sand, da Gideon Levy ad Amira Hass. Voci interne, critiche, profondamente oneste, che hanno avuto il coraggio di denunciare l’impalcatura ideologica, marcatamente razzista e coloniale su cui si regge lo Stato israeliano moderno. Uno Stato nato da un torto per riparare un altro torto, costruito su un’ideologia messianica e nazionalista che affonda le sue radici non in un progetto razionale di convivenza, ma nelle parole di un libro, la Bibbia, che racconta di Faraoni, Arche della Alleanza e stabilisce che esiste un popolo superiore perché “eletto” da Dio.

Lo stesso testo afferma che alcuni uomini hanno vissuto fino a 900 anni e che l’origine del male debba essere ricondotta ad un serpente parlante che ha offerto una mela avvelenata ad una donna creata da una costola. Sempre la Bibbia considera addirittura l’esistenza della donna un errore, la fa vedere alla stregua di un essere malvagio, nato in maniera innaturale, proprio come l’Alieno della saga di Alien. L’Antico Testamento è un testo privo della visione caritatevole ed universale di Gesù, ma è un racconto sanguinoso, disturbante che narra di un’intera umanità sterminata da un dio non misericordioso, ma vendicativo, che uccide con estrema facilità e che non esita a cancellare l’intera umanità con piaghe ed alluvioni, come il diluvio universale.

Tra la comunità ebraica, soprattutto nelle sue frange più estreme, c’è una nutrita fetta di persone che prende alla lettera quanto scritto nell’Antico Testamento, e lo considera vero; c’è una parte consistente di un modello culturale che crede ciecamente al racconto di mari che si aprono in due come sipari teatrali, di bastoni che si trasformano in serpenti, di città incenerite dal fuoco divino per punire imprecisate colpe sessuali, di profeti inghiottiti da balene, di asini che parlano, di infinite guerre volute da Dio stesso per distruggere popoli interi, bambini inclusi.

Purtroppo da queste storie mitologiche, che in qualunque altro contesto sociale e culturale chiameremmo favole, allegorie o leggende antiche, si pretende di trarre un fondamento razionale per giustificare l’esistenza di uno Stato armato, moderno, nucleare, razzista e coloniale. Uno Stato che basa non solo la propria legittimità morale, ma perfino la propria collocazione geografica su ciò che è scritto nella Bibbia.

Sì, perché anche i confini stessi del moderno Stato di Israele non derivano da una realtà storica oggettiva, da un’eredità culturale o da un principio giuridico condiviso, maderivano da un testo religioso, che non si sa bene ancora da chi sia stato scritto e quando, un testo che descrive il loro Stato come una indefinita terra promessa, che considera la nascita di una comunitàcome dono divino conferito ad un popolo eletto.

Una narrazione spirituale, che non si sa neanche quanto sia vera o precisa, è stata trasformata in mappa politica ed è stato chiesto ai palestinesi di pagarla con il proprio sangue. La nascita dello Stato di Israele ha legittimato la conquista territoriale non attraverso la storia, la diplomazia o il diritto internazionale, ma attraverso la fede. Una fede antica, piegata alle esigenze moderne del potere. Da quella scelta è nato uno Stato intoccabile, che non può essere criticato senza incorrere nell’accusa automatica di antisemitismo; uno Stato che si definisce al tempo stesso “ebraico” e “democratico”, ma che utilizza la medesima retorica identitaria che Hitler impiegava per giustificare la propria idea di purificazione etnica.

Non c’è differenza sostanziale tra il pensiero dei Talebani, l’Isis e la politica israeliana. C’è solo qualcosa di profondamente malato in ogni progetto politico che impone l’identità con la forza e giustifica la violenza in nome di testi religiosi antichi, scritti anche male e tradotti spesso maldestramente. Accade con la Torah in Israele, come accade con il Corano nei regimi teocratici dell’Afghanistan. Cambia la lingua, cambia il Dio, ma non cambia la sostanza: il fanatismo, l’odio istituzionalizzato, il dominio di un popolo sull’altro. E in tutto questo, l’Unione Europea si mostra per ciò che ormai è diventata: un gigante vecchio, un fantoccio corrotto, una cattedrale nel deserto burocratica e senz’anima, incapace di prendere posizioni morali chiare, paralizzata da interessi economici, priva di visione, senza coraggio. L’Europa che un tempo si ergeva a difesa dei diritti umani, oggi balbetta dichiarazioni neutre davanti a un genocidio trasmesso in diretta. Si piega, si volta dall’altra parte, si rifugia nei distinguo, nei silenzi, nelle formule vuote. È la disfatta della politica, il fallimento della coscienza collettiva, il suicidio etico dell’Occidente.

Ma la storia ricorderà. E non sarà tenera con chi ha scelto deliberatamente di tacere.