Il mare, una raccolta di quattro ‘romanzi brevi’ (o ‘racconti lunghi’: L’ultima delle mille e una notte; Solitudine; Il mare; L’uomo nel labirinto), prende il titolo dal testo più rappresentativo. Fu pubblicato da Corrado Alvaro nel 1934 e, in seguito, non ebbe molto successo. Di contro a questa scarsa fortuna editoriale, i recensori e i critici più attenti hanno indicato nell’opera uno dei vertici (e qualcuno anche ‘il vertice’) dell’arte alvariana.

I quattro testi sono stati composti in due precisi poli temporali, separati da un lungo intervallo: L’uomo nel labirinto fu iniziato nel 1921 a Parigi e pubblicato solo nel ’26; Il mare uscì invece nella rivista «Pegaso» alla fine del 1931, dove anche apparve alla fine del 1932 Solitudine, mentre in «Occidente», sempre in quel periodo, fu stampata L’ultima delle mille e una notte. Però il primo testo, L’uomo nel labirinto, fu sottoposto ad una drastica potatura, che ne mutò l’originario respiro.

Le narrazioni si svolgono quasi per intero in ambientazioni lontane dalla Calabria: Il mare è stato ispirato dalle vacanze estive a Positano; Solitudine – storia di un uomo e di una donna che nella Berlino degli anni Venti non riescono a fondersi salvo che con i corpi, per diversità razziale e culturale – scaturisce dal semestre che lo scrittore sanluchese aveva trascorso, a partire dalla fine dell’ottobre 1928, nella capitale tedesca, vivendo l’esperienza dell’emigrante in terra straniera; e, infine, L’ultima delle mille e una notte si apre a Parigi per poi passare in Turchia (seguendo il transito del protagonista, un avventuriero in fuga dalle polizie di mezza Europa) e mette a frutto l’esperienza compiuta da Alvaro durante un fortunato reportage in Turchia per conto della «Stampa».

L’ultima delle mille e una notte è la prova più ‘narrativa’ di Alvaro per ritmo e intreccio. Il protagonista, Mosco, è uno sradicato, nell’atmosfera cosmopolitica della Parigi del primo dopoguerra, avendo vissuto i suoi primi anni nei paesi d’Oriente; ha una moglie molto bella, la quale si sente declassata per essersi unita ad un avventuriero squattrinato, che vive di espedienti; e ha un rapporto perverso con Cirus, cui ha prima sottratto la donna e, poi, la somma che gli consente di mutare vita, grazie a un’intuizione geniale. Avendo letto che nella Turchia di Mustafà Kemal era in corso l’occidentalizzazione del vestiario, con l’abolizione forzata del fez, decide di acquistare a prezzo insignificante i sottoprodotti usati dell’industria bellica (cinquantamila uniformi, complete di berretto, per i prigionieri di guerra) e di rivenderle in quel paese, in cui i cappelli occidentali sarebbero andati a ruba, con enorme margine di guadagno.

Dalla Parigi dei boulevard e dei caffè fumosi, in cui converge un’umanità multietnica e trasgressiva, la narrazione si sposta con trapasso violento in Turchia. Qui Alvaro aveva colto, da inviato speciale, il dissolversi di un mondo millenario per effetto della sopraffazione esercitata da una civiltà più evoluta, che imponeva le sue leggi e i suoi costumi. E ora nel racconto rimodula questa tematica, che però veicola contenuti estremamente inquietanti e moderni sul potere di livellamento e di massificazione esercitato dalla civiltà occidentale contro quella orientale e sulla necessità fisiologica dell’industria bellica di fomentare le rivoluzioni per produrre profitti. Si appartiene a «una nuova religione del mondo», improntata alla tirannia del denaro; e le automobili sono i «segni di una civiltà che non vuol morire, che si nutre della morte delle altre civiltà». Nei capitoletti conclusivi di L’ultima delle mille e una notte le riflessioni di Mosco sul contagio della vecchiaia e della corruzione tra civiltà diverse (e dunque dell’Occidente sull’Oriente, dell’europeismo monocentrico e colonizzatore sull’islamismo) trovano una concrezione simbolica nel diverso destino di Nurreddin, l’intellettuale che preferisce il suicidio all’abiura delle proprie idee, e di Azisa, attrice della «comédie turque», che rinunzia a praticare il teatro nazionale per convertirsi alla «comédie européenne», per di più mercificata dalle «danseuses nues».

In Solitudine Alvaro passa a cogliere in un contesto nordico l’infelicità degli «animali» urbani e il bisogno di una lotta umana (o di una guerra) che scarichi la tensione distruttiva. Sebbene composto in data posteriore a L’ultima delle mille e una notte, Solitudine ha origine da un’esperienza anteriore, il soggiorno fecondo di contatti e di scoperte intellettuali a Berlino, dove con antenne sensitive Alvaro ha percepito il serpeggiare dell’odio tra le razze, nella fase agonica della repubblica di Weimar. Questo stato di disagio della civiltà viene messo a fuoco con intensità lacerante (è tra gli esiti espressivi più alti dell’intera narrativa alvariana) ed emblematizzato nell’incontro erotico di una donna continentale, che vuole «assaggiare un frutto diverso», e dell’io narrante Stefano Agri, un diasporato meridionale che si sente «una natura a parte». Quando incontra Elfrida, Stefano misura l’altra da sé «come nell’attesa di una lotta»; e si risveglia, dopo una notte di sesso, con «l’impressione cocente, amara», della degradazione per essere stato usato come un oggetto, essendo solo «un frammento umano che aveva incontrato per caso».

È un contatto che si carica ― nella successione degli incontri ― di tensione disperata, data la solitudine divorante di Stefano nell’enorme anonimato di una moderna metropoli. Ma la volontà d’amare deve arrendersi all’estraneità, quando non alla rivalità, che scaturisce dalla alterità razziale e culturale. Dopo una cena con molti convitati, che hanno discusso acremente di politica (si è alla vigilia del nuovo Reich), tutti ― meno Stefano ― intonano un vecchio canto tedesco, «imponente, impetuoso, profondo»; ed esso situa Elfrida «su un’altra riva, infinitamente lontana». Per Alvaro la donna è il simbolo della differenziazione tra le patrie, poiché dentro Elfrida pulsa il rifiuto dell’altra razza (che la può fecondare, ma non fondare una famiglia), tanto da nutrire persino la tentazione di sopprimere Stefano, nel corso di un viaggio al termine della notte.

Il mare narra stupendamente la inquietudine di un ritorno malato alla natura, in un «paese stanco e solitario» che sta su un picco roccioso proteso sul mare come una prora (Positano). Con acutis­sima visività delle sensazioni e delle vibrazioni Alvaro instaura una rispon­denza stregata fra il paesaggio (il mare come battito del tempo) e la psicologia dei personaggi: una luce implacabile li chiude come in un cristallo, rivelando la loro inferma solitudine. L’io narrante, Tartuca, è un personaggio in fuga dalle leggi della società civile, dalle ferite inferte da una delusione d’amore (una nordica Grete) e dal male di vivere «nelle stanze della città, che hanno colpa di tante cose».

Il suo sogno è di rinascere a contatto con la natura, regredendo ad uno stadio elementare di vita. Ma l’illusione si dissolve proprio a contatto con la natura: la fiamma del sole respinge l’io narrante nell’ombra, l’oceano di luce isola ognuno nel cerchio di sé stesso, il respiro del mare diviene una ossessiva richiesta sul significato della vita. Non si sfugge, sulla spiaggia assolata, alla tristezza devastante dell’essere uomo: i solitari si guardano e si nascondono «come malati»; e ognuno cerca di individuare nei nuovi venuti il contagio del male, dell’inquietudine, e la consapevolezza che «noi siamo ormai animali della città e dobbiamo vivere in quella legge». Incattivito dal paesaggio marino, Tartuca infiltra in Alda, una provinciale che ha il marito in città, la malattia delle suggestioni inquiete; e «con opera diabolica» la induce ad accogliere nel grembo l’adolescente Benvenuto, corrompendolo e corrompendosi, quando già la voce mutata delle cose dà il primo annunzio dell’autunno.

Una volta pubblicati sparsamente i quattro testi di Il mare, lo scrittore si è accorto che era possibile aggregarli secondo una idea unificante; e ha rivoluzionato l’ordine di composizione, ribaltandolo. Nella nuova disposizione si fa perno su una cultura esterna all’Europa per poi passare all’interno del continente, alla malattia della civiltà mediterranea, in movimento retroverso dal testo cronologicamente più recente a quello più antico. Inoltre, nei racconti centrali c’è un io narrante (Stefano Agri e Tartuca); ai due estremi, narrazioni in terza persona e personaggi che si richiamano a distanza (Mosco e il Babel di L’uomo nel labirinto), con l’ultimo a chiudere il volume nel segno dell’impossibilità della guarigione.

In conclusione, riletto a distanza di quasi un secolo, Il mare appare un libro nuovo e decisivo nell’itinerario di Alvaro per il suo sperimentalismo di struttura e di scrittura, per la sua capacità di cogliere profeticamente caratteri e patologie della civiltà occidentale: dallo slittamento verso i regimi dittatoriali all’alienazione dell’uomo a una dimensione; dalla tremenda solitudine dell’anonimato urbano ai labirinti interiori delle ossessioni; dalla sparizione dell’individualità nel conformismo della massa alla lotta sopraffattoria tra le civiltà.