Il romanzo ripercorre l’intera parabola di tutta una generazione, quella dei ventenni: dalla retorica interventista sulla guerra come compimento del risorgimento inconcluso allo scontro traumatico con la realtà della morte e della distruzione
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Si compie in Vent’anni (1930) una scoperta del male nella Storia, riflessa negli occhi di Luca Fabio, un soldato giovanissimo e acculturato che giunge alla stazione di Firenze da un qualche paese «senza storia» del lembo estremo del Meridione agropastorale per frequentare il corso di allievo ufficiale, nell’ottobre del 1914, quando la guerra è già scoppiata, senza coinvolgere ancora l’Italia. Subito coglie la separazione delle due Italie, quella nella Storia e l’altra senza storia; e la guerra come banco di prova ed olocausto diviene anche un modo per operare il passaggio dalla separatezza della sua provincia emarginata alla nazione.
La sua storia, emblematica dell’‘altra’ Italia, emarginata e contadina, Fabio la racconta a un ventenne come lui. Attilio Bandi, settentrionale, biondo ed alto e dagli occhi azzurri, si è arruolato volontario per tradizione familiare (il padre è un colonnello in servizio attivo): insomma, Attilio proviene dalla Storia ed è già nazione. Al racconto sfuggente di Fabio e a quello di Attilio, per cenni non riluttanti, s’intreccia la vicenda di Cosma Lorici, fuggito dal seminario per arruolarsi. Alla religione come unico strumento di ascesa sociale per il popolo si contrappone la chiamata del mondo, che è impossibilità di appartarsi nella vita contemplativa mentre tutto, intorno, è fibrillazione. Fabio e Cosma sono due volti diversi ed omologhi di un popolo che solo ora si affaccia alla Storia, iniziando attraverso l’appropriazione della cultura il suo riscatto; e come loro è il maresciallo Ligorio, anche lui di estrazione popolare e meridionale, che alla vita militare si è dato con dedizione religiosa.
In casa Bandi Luca conosce Eva Ammeri, una donna velata di mistero, in fuga da sé stessa e dal suo passato. È, il suo, un parlare per eludere lo schermo della solitudine, ma soprattutto per rimuoversi, per sfuggirsi. Fabio comprende che questa frequentazione gli «fa male», ma non riesce a sottrarsi al suo fascino, come d’altronde avviene per lei.
Nel rapporto tossico fra Eva e Fabio viene a coagularsi la malattia della modernità metropolitana: la dispersione nei labirinti interiori, la ricerca vana di un significato esistenziale, il tormento della solitudine. A Eva si contrappone Luti, la donna di piacere che ha inventato un altro modo di essere per il suo sesso, divenendo simbolicamente lo specchio di quella frattura epocale che sulla civiltà occidentale sta incidendo la guerra. Mentre il mondo è devastato dall’evento (sino ad allora) più distruttivo nella Storia, tutto sembra sospendersi per il parto di Luti, nel dolore degli spasmi che da profondità ancestrali portano alla luce il piccolo essere. Il «mistero della natività», con la catarsi che induce, attrae Cosma; e Luti identifica in lui l’uomo che potrebbe riscattare le mille impronte degli uomini che l’hanno arata.
Con il capitolo quinto il transito dal mondo della quotidianità borghese a quello – traumatico – delle trincee e del fuoco nemico trova un esito narrativamente perfetto. È la guerra, quella vera, non mitizzata, non eroicizzata: «dagli arbusti, dai solchi, dalle fratte, sorsero forme umane», formiche che correvano e si atterravano al rintocco del cannone austriaco. In un’alba «grigia e stagnante» l’ispezione sulla linea del fronte di Luca e Attilio diviene una fonda interrogazione su cosa sia la vita nella guerra: abolizione di secoli di civiltà, cui meglio vi si adattano coloro «che non si sono dimenticati la terra». L’entità vera della guerra è la tragica «maschera gialla, di cera», di un austriaco, dal cranio bluastro («Puzzano più dei nostri, si gonfiano e scoppiano di quando in quando. I nostri, invece, s’inseccoliscono e diventano duri come pietre. Ecco un vantaggio a mangiare di meno»).
La notte che precede il primo combattimento è segnata dall’ultimo lungo colloquio fra i due compagni. Luca ribadisce la sua visione ormai demitizzata della guerra come «incubo» e «latrina» della realtà italiana. A dominare è sempre l’ombra della morte: di contro alla certezza di vivere, irrazionale, di Fabio, trapelano e s’infittiscono tristi presagi per Attilio. Il gocciare lunghissimo del tempo dell’attesa prima del sacrificio scandisce lo stillicidio delle cose più inutili, nella solitudine e nella svogliata consumazione di cognac e cioccolata. Poi il tempo sospeso ha termine e parte l’attacco, in un’unica ondata: appena un centinaio di metri da percorrere in velocità, ma reso da Alvaro – con felicissima resa espressiva – in una successione rallentata di atti, come in un’allucinazione nebbiosa. E anche la morte di Attilio si compie in una dimensione rarefatta e quasi irreale: i suoi movimenti sono divenuti rigidi come quelli di un automa. L’ultimo pensiero del cervello colpito, quello del dovere da compiere, lo fa risollevare «in ginocchio, volto al nemico»: «una mitragliatrice lo batteva in pieno, infilava una pallottola dietro l’altra in quel petto, lo faceva tremare come un virgulto sotto il vento».
Il cambio di reggimento, sulla linea del fuoco, è un ritorno estraniato al mondo di ieri. Fabio ripensa al congedo brutale dai suoi vent’anni; e il periodo di tempo passato nella guerra gli fa trovare la vita comune «come una cosa vuota di senso». Lo prende un senso di soffocazione per quelle case che gli paiono «sudice tane»; ma poi tornano ad accamparsi i suoni e le immagini dell’esistenza quotidiana. La vita continua ad essere oscuramente forte; e lui ritrova insperatamente un contatto materno in un postribolo, dove c’è Luti, che lo chiude fra le braccia per rimuovere e illudere «il tempo e il destino».
Alla fine di luglio il battaglione ripassa l’Isonzo in una notte serena di piena estate. Al plotone di Fabio è stato assegnato un volontario, Romano Vitali (ribattezzato Guerra Vitale, perché dalmata e suddito austriaco). Di contro ai rétori osceni che sono «rimasti a casa», soddisfatti per «aver voluto la guerra», il volontario Vitale si dona alla patria con l’attitudine cristiana alla sofferenza, che è ricerca di una forma di liberazione e di sublimazione. Il sentimento «più grande, più bello, più umano» è il virile coraggio della rassegnazione alla caduta delle illusioni, nella «solitudine infinita» che chiude ogni uomo all’altro nel momento supremo.
Un’alba stracca – che precede l’attacco – si apre su un povero panorama di teli da tenda stinti e logori, di grovigli di fili e di rottami. Un combattente italiano, investito in pieno da uno scoppio, si dissolve «nel movimento della terra che si chiudeva su di lui come un’onda». Compiendo una lucida pazzia, il battaglione conquista una posizione ritenuta inespugnabile; e il generale si muove come un’ombra fra le ombre, guarda lo squallore dei «cadaveri bocconi a metà denudati», in una latrina da campo». Come un fantasma che vaga in una rappresentazione tragica, ridiscende le linee facendo risuonare un comando imperioso e vano, perché «sul campo non c’è nessuno e nessuno gli risponde».
Mentre il generale si aggira in uno scenario spettrale di morte, un uomo vivo batte i denti scosso dalla febbre: è Cosma Lorici, che si era imboscato. Fabio gli consiglia di assumere una nuova identità: «puoi prendere le carte d’un altro, il numero e il nome d’un altro, diventare un altro». La guerra ha livellato «perfino le fisionomie umane», come il fiume «che leviga i ciottoli e li rende uniformi»; e «ha preso lo stesso ritmo della vita», rendendolo «un movimento simile a quello del mare, che batte perpetuamente alla riva» ed è scandito da un’unica legge. Le metafore marine coagulano, in costellazione simbolica, la condizione esistenziale dei ventenni, «come dopo un naufragio buttati su una spiaggia». Gli eroi sono quelli delle vite concluse; gli altri, i reduci, saranno degli spostati, un peso e un problema per ciò che verrà con la pace. Poi Lorici vede Fabio «scomparire a una svolta, curvo»; e si sente solo, in quel luogo sperduto. È la solitudine che attende ognuno nella vita futura, dura quanto la guerra: «camminare voleva dire essere vivo».
Documento del chiudersi di un’epoca, Vent’anni dà uno spaccato complesso della società italiana. La vita nel fango delle trincee ha segnato la caduta rovinosa del mito risorgimentale della guerra e l’esperienza di altri e più fondi valori umani (la solidarietà nel dolore), che Fabio ha avuto modo di convalidare alla luce suprema della iniziazione alla morte. Nei due assalti, che vi sono narrati, emerge in modo scioccante lo sciupìo insensato di truppe e di uomini, mandati con la retorica dell’eroismo patrio a una cruda macellazione per sopperire all’impreparazione cervellotica dei comandi ed alle incredibili carenze di mezzi e di equipaggiamento.
A distanza di un quindicennio da quell’evento, in Alvaro il trauma permane, insuperato; e in Vent’anni ripercorre – con grandi risultati espressivi – l’intera parabola di tutta una generazione, quella dei ventenni: dalla retorica interventista della guerra come compimento del risorgimento inconcluso allo scontro traumatico con la realtà orrida della morte e della distruzione. Al tempo stesso, però, l’idea retorica e mitica di nazione viene sostituita – proprio grazie a quell’esperienza – dalla verità di una nazione come «comunità solidale di uomini».
Al termine di un tracciato intensissimo, quei ventenni sono divenuti uomini. Come nell’epilogo di una tragedia, a Fabio e a Lorici, scampati all’inutile carneficina, toccherà ancora vivere per testimoniare la desolazione e la volontà di rinascita di quella generazione. Il fondo timbro di liricità meditativa diviene epicedio delle illusioni e delle mitografie frantumate. La lingua narrativa ben si raccorda stilisticamente a questo percorso dall’illusione alla delusione, esprimendo in una unica diottria di percezione, quella dei ventenni, la scoperta progressiva della pesantezza del vivere, del suo essere fatica e dolore.
Nel filone intensamente frequentato della letteratura di guerra questo romanzo si pone come l’esito più alto per la densità poetica che lo percorre, poiché più d’ogni altro esprimeva l’incontro di tutta una generazione con il primo grande orrore del secolo breve, del secolo della paura.

