Nessuno, almeno all’inizio, avrebbe scommesso seriamente su di lui. Robert Francis Prevost, cardinale statunitense con un passato da missionario in Perù e un temperamento misurato, era considerato un outsider. Invece, a sorpresa, è stato proprio lui a uscire Papa dal conclave che si è concluso nella Cappella Sistina, in un clima che alcuni dei partecipanti hanno definito “teso ma sereno”. Un'elezione arrivata al termine di una serie di votazioni incerte, tra candidature forti ma divisive e una crescente ricerca di una figura capace di unire, più che di imporsi.

A ricostruire il dietro le quinte del conclave è un lungo articolo del New York Times, firmato da quattro inviati, che racconta per la prima volta le parole dei cardinali riuniti in Vaticano. Un mosaico di voci che offre un raro sguardo all’interno di una delle cerimonie più blindate e complesse della Chiesa cattolica.

Secondo quanto riportato, tutto è cominciato in un clima quasi surreale: la prima serata di conclave è stata segnata da una lunga meditazione, poi una votazione improvvisa — “una specie di sondaggio preliminare”, l’ha definita un cardinale — senza nemmeno una pausa per la cena. Niente bagni, niente distrazioni. Solo silenzio, schede e sguardi.

I tre nomi emersi al termine del primo scrutinio sono stati quelli dell’italiano Pietro Parolin, dell’ungherese Peter Erdo e dello stesso Prevost. Parolin, segretario di Stato vaticano, era il più quotato tra gli italiani, ma ha pagato le divisioni interne del fronte nazionale. «Se gli italiani fossero stati compatti, forse sarebbe andata in un altro modo», ha detto uno dei presenti. Ma così non è stato: Parolin ha raccolto voti, ma non abbastanza.

Peter Erdo, 72 anni, arcivescovo di Budapest, si è presentato con l’appoggio di una coalizione conservatrice, composta anche da cardinali africani. Ma il suo nome non ha scaldato i cuori del collegio cardinalizio, composto in larga parte da figure nominate da Papa Francesco. Troppo rigido, troppo ancorato a posizioni che il pontificato uscente aveva più volte tentato di superare.

A quel punto, mentre il primo giorno si chiudeva senza un vincitore, è iniziata la lenta ascesa di Prevost. Un profilo basso, poco divisivo, stimato per i toni pacati e l’esperienza pastorale accumulata in America Latina. Il giorno prima del conclave era stato scelto a sorte per coordinare gli incontri preliminari tra i cardinali. Un incarico tecnico, che però gli ha offerto una visibilità nuova. «Più lo ascoltavamo, più ci convinceva» ha raccontato il cardinale Tobin del New Jersey. «Bob, potrebbero proporre te», gli avrebbe detto scherzando.

E così è stato. Giovedì mattina, alla quarta votazione, le schede hanno cominciato a convergere su di lui in modo chiaro. «Uno spostamento schiacciante», ha riferito il cardinale You Heung-sik, della Corea del Sud. Il suo volto ha tradito l’emozione. «L’ho visto con la testa tra le mani», ha detto ancora Tobin. Tagle, uno dei papabili della vigilia, gli ha offerto una caramella per distrarlo. “Sì, grazie”, avrebbe risposto lui, visibilmente provato.

Nel pomeriggio, la svolta. Nella quarta votazione, Prevost ha raggiunto gli 89 voti necessari per essere eletto. Due terzi esatti. La Cappella Sistina, raccontano, è esplosa in un’ovazione. Ma lui, incredulo, è rimasto seduto. «Qualcuno ha dovuto tirarlo su», ha raccontato il cardinale David delle Filippine. «Eravamo tutti con le lacrime agli occhi». Poi i voti hanno continuato a salire, superando le tre cifre. Una maggioranza netta, inequivocabile. «Una delle più ampie che io ricordi», ha detto il cardinale Désiré Tsarahazana del Madagascar.

Così è stato scelto il nuovo Papa. Non l’uomo dei grandi proclami, non il favorito delle scommesse o delle fazioni. Ma un americano tranquillo, che ha saputo unire invece di dividere. Un missionario silenzioso, che ha convinto con l’ascolto, non con l’ambizione. Il conclave ha parlato. E ha chiesto una guida sobria, capace, aperta. Prevost, forse, non lo sapeva ancora. Ma già era diventato il Papa di cui avevano bisogno.