L’intervista

Zavettieri socialista doc di Calabria: «Il Pd vorrebbe essere la nuova Dc ma non è all’altezza»

Storico esponente del garofano, oggi a 81 anni è sindaco della sua città natale, Bova Marina. Segretario regionale della Cgil negli anni ’70, poi deputato e assessore regionale. La sua cifra è la coerenza non avendo mai rinnegato la radice socialista. Ecco come vede presente e passato della politica calabrese

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di Claudio Labate
22 ottobre 2023
06:15

Oggi è alle prese con l’attività amministrativa di Bova Marina, ma ha alle spalle una carriera lunghissima, di cui conserva gelosamente, nel vero senso del termine, il simbolo: quel garofano che ha segnato un’epoca della politica italiana.

Saverio Zavettieri oggi, a 81 anni, è sindaco della sua città natale. Per alcuni un sogno, per lui un impegno, e un debito da saldare. La sua lunga esperienza sulla scena pubblica lo ha visto tra il 1970 e il 1972, impegnato nel sindacato: prima segretario della Cgil di Reggio e, nel 1972, segretario della Camera del lavoro della Calabria, che guiderà per un decennio. Nel 1983 divenne per la prima volta deputato del Partito Socialista Italiano. A cui rimarrà fedele per sempre. Tanto che fu il fondatore, nel 1996, del Partito Socialista (Ps). Tra il 2000 e il 2005 ricoprì anche il ruolo di assessore regionale alla Pubblica Istruzione. E nel 2005 fu l’ispiratore della nascita de I Socialisti.


Esaurita l’esperienza col centrodestra regionale del 2010, Zavettieri, segretario nazionale del Psi - Socialisti uniti, che aveva ereditato il simbolo storico del garofano, tuttora congelato perché da nessuno utilizzato, dà una mano nel 2013, ma da esterno, a Stefania Craxi.  

«Nel 2019, per un debito nei confronti del Comune – io sono stato poco qui, perché avevo la residenza a Catanzaro – mi sono sobbarcato questo peso enorme, e passo le giornate tra Comune e casa».

Zavettieri è un politico d’altri tempi. Ci incontriamo al bar del paese. Lui è seduto al tavolino e mi aspetta. Faccio qualche minuto di ritardo, e me lo fa notare. In maniera bonaria. Sembra avere fretta. Ma in realtà appena cominciamo a chiacchierare diventa inarrestabile, soprattutto dopo che, stretta la mano, gli chiedo cosa resta di quel socialismo che non ha abbandonato mai.

«Questo è un periodo per così dire di pausa. Rimango socialista, non ho preso alcun’altra tessera, non ho accettato neanche alcune proposte, anche allettanti che mi sono state fatte, non per un fatto di superbia, ma perché consideravo la mia esperienza amministrativa finita con la Regione e volevo dedicarmi alla ricostruzione di una presenza socialista che fosse un’espressione di autonomia: perché l'esperienza socialista, dell'autonomia socialista, era un’esperienza in forte contraddizione, per non dire contestazione, col sistema bipolare».

E d’altra parte il bipolarismo, impostosi dal 1992, Zavettieri proprio non lo digerisce: «Non mi pare che alla luce dei risultati centrodestra e centrosinistra abbiano fatto un gran bene per l’Italia, perché in molte occasioni hanno per così dire segnato il fermo del nostro paese, che era un paese in forte crescita – era la quinta potenza industriale del mondo e la seconda in Europa – ora ho perso il conto in quale posto della graduatoria si trova».

Questa è la realtà per lui e, tra l’altro, aggiunge l’esponente socialista, «chi fa politica e non tiene conto del dato di realtà, che è un dato incontrovertibile, non può fare politica. E la realtà oggi è questa».

C'è, insomma, ancora, per lui, un bipolarismo che però non dà frutti.

«C’è stato un tentativo di superare queste vecchie categorie, rappresentato dal Movimento 5 Stelle, che è fallito miseramente. Io ho visto nei 5stelle questo tentativo di superare le contrapposizioni, la logica di coalizione destra-sinistra per riaprire i giochi. Ma quell’esperimento è stato fallimentare pur avendo i voti, perché non aveva una strategia politica e un gruppo dirigente che portasse avanti questa strategia. Hanno speso quel consenso in una pratica di governo che ha portato il Paese dove si trova oggi e i 5stelle dove sono oggi».

«Riaffrontare questo problema sarebbe un problema enorme. Io spero che i giochi cambino in qualche modo con la riforma presidenziale che può rinnovare una sorta di patto sociale tra i cittadini e le istituzioni e rilanciare la partecipazione. Con questo sistema invece la partecipazione sarà sempre più bassa»

«Sono un riformista»

Scelgo di fare una domanda retorica, e in un certo senso provocatoria, per un socialista. E chiedo a Zavettieri se si sente ancora un riformista.
«Non mi sento un riformista, credo di esserlo - mi dice sorridendo -. Perché nella mia esperienza sindacale il sindacato era il riformismo per essenza della sinistra. C’erano grandi istanze sociali. Grandi esigenze di rinnovamento che derivavano da una cultura di sinistra, dalla cultura dei diritti e della libertà, ma il sindacato poi non essendo ideologico e dovendo dare delle risposte ai problemi, questa spinta la trasformava sempre in soluzioni che tendessero a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei cittadini e a far crescere una società. Questo è il riformismo. Quindi io ho respirato cultura riformista fin dall'inizio».

Ma il sindacato, quel sindacato, non c’è più. Zavettieri non ne fa mistero, e traccia la differenza col passato: «Il sindacato si è molto istituzionalizzato, è entrato per così dire nelle stanze del potere, non ha saputo combattere il virus del corporativismo, e soprattutto in alcuni settori è diventato parastato. Cioè è prevalsa una cultura corporativa, una difesa ad oltranza delle categorie professionali che ha significato conquista di diritti e rinuncia dei doveri. Sono quindi prevalsi la logica difensiva, conservatrice, dei diritti, e non la logica dei servizi, della funzione al servizio della società. Per esempio gli 80 euro del governo Renzi che sono stati un aiuto ai salari bassi, mettevano in evidenza un grande ritardo del sindacato. Se non contratta, il sindacato che fa?».

Cosa ha pensato quando Landini ha invitato la Meloni al congresso della Cgil? «È una legittimazione pubblica, è una legittimazione del governo, perché il sindacato vive degli incontri con governo e diciamo della voglia di sedersi al tavolo per dare l'impressione che decide qualcosa. Basti pensare che negli anni ’80 bastava la minaccia di uno sciopero che cadevano i governi. Oggi non se ne frega nessuno, anche perché le partecipazioni sono abbastanza scarse».

Il giudizio su Meloni e Schlein

Quando il discorso scivola sulla situazione nazionale, Zavettieri si definisce «un osservatore preso dai problemi del Comune», ma faccio notare che non può definirsi un «osservatore qualunque». Allora lui si scioglie.

«La Meloni per me ha i numeri perché è una leader politica, che si è costruita nella politica. E anche diversa secondo me da Salvini, perché lui ha bruciato un patrimonio che aveva immeritatamente conquistato nel volgere di una stagione. Credo che la Meloni non ripeterà questa esperienza perché ha una maggiore cultura politica. D’altronde lei poteva fare qualcosa se non assediata. Ma sempre dopo le elezioni europee, perché quelle saranno le vere elezioni politiche nazionali. Perché dovranno confermare i rapporti di forza, e da lì inizieranno i tre anni effettivi di legislatura del nostro paese».

Per il leader socialista reggino, la Meloni ha però assunto più impegni di quelli che potesse mantenere, perché ha assunto impegni sulla riforma presidenziale, sulla riforma della Giustizia, in materia di tasse e di immigrazione, che per essere onorati «avrebbero bisogno di un governo pienamente legittimo e che si muovesse con autorevolezza quantomeno in Europa».

In questo senso per Zavettieri, i suoi alleati «sono un problema».

«Lei, avendo la provenienza fascista di An, aveva il problema della legittimazione. E per legittimarsi ha dovuto fare la pace con l'Europa, non dico a consegnarsi, e fare la pace con gli Stati Uniti, per coprirsi da questo versante perché l'Italia che è un paese debole è sempre soggetto alle incursioni dei poteri esterni, almeno dal ‘94».

Dall’altra parte dello schieramento c’è un’altra donna alla guida del maggior partito di opposizione. Il giudizio di Zavettieri non è lusinghiero. «Elly Schlein pensava di essere la cura per il Pd, ma rischia di essere un altro male, perché si è innestata in un partito sistema, un partito di gestione, un pezzo di Stato, perché il Pd ormai è un pezzo di sistema, pur non avendo le percentuali che aveva la vecchia Dc, e quindi difficilmente sostituibile per gli equilibri del sistema. Però quel partito per riespandersi ha innestato un corpo estraneo che dovrebbe rifare un altro partito cercando un altro elettorato che non c’è. Quell’elettorato è distribuito tra le varie anime della sinistra-sinistra e del Movimento 5 stelle. Non la vedo come una leader capace di aggregare uno schieramento di sinistra, riformista, alternativo al centrodestra. E fino a quando la Meloni non ha un’alternativa, è costretta a governare, volente o nolente».

Il nodo giustizia

Se si parla di giustizia con Zavettieri, il giudizio è netto: «Quello dei magistrati è un potere esorbitante e anomalo». L’epopea socialista e l’era di Mani pulite hanno lasciato il loro segno, ma l’esponente del garofano non rinuncia ad aprire questo «capitolo dolente».

«È un problema serio per tutti – esordisce -. E il problema è il vuoto della politica che è stato fatto con l'operazione Mani pulite, cui è seguita l'abdicazione della politica, perché i vecchi partiti sono stati fatti fuori brutalmente da quell'operazione, e i nuovi non hanno capito o non hanno avuto la forza di riappropriarsi di alcune prerogative proprie della politica».

Per Zavettieri la politica dovrebbe essere l'elemento regolatore di una società e degli equilibri tra i poteri di una società, esercitando un ruolo di indirizzo e di controllo del funzionamento di tutti gli altri organi dello Stato. «La politica a questo ruolo ha rinunciato, è controllata, non è in condizione di controllare nessuno. Quindi è un problema serio per il funzionamento della democrazia e non solo per l'equilibrio dei poteri».

Insomma, quella che si è creata dopo Mani pulite per il parlamentare reggino è una democrazia malata che non regge sul consenso degli elettori ma su alcuni poteri che hanno esorbitato. «La magistratura ha un potere immenso. Loro entrano nella vita delle persone senza pagare alcun pedaggio, anche quando sbagliano».

Zavettieri confida che proprio la scelta di Nordio alla Giustizia ha rappresentato per lui un elemento di fiducia nei confronti della Meloni, perché il Ministero gli è stato affidato proprio con questo compito specifico, «che non può assolvere fino in fondo almeno fino alle elezioni europee».

Napolitano, «comunista ortodosso» e l’esclusione dall’Antimafia

Gli aneddoti lungo una vita dedicata prima al sindacato e poi alla politica si sprecano. Zavettieri è uomo che fieramente sventola la sua autonomia di pensiero e di azione. Ha avuto a che fare con i più grandi della politica del passato. Anche con chi di recente ha lasciato la vita terrena.

Di Giorgio Napolitano ad esempio ha un ricordo non proprio piacevole. «Napolitano era un comunista diverso, ma non meno comunista dei comunisti ortodossi. Perché alla fine delle sue scelte, lui difendeva l'essenza del Partito Comunista in modi e forme accettabili, col suo garbo. Per cui passava come riformista, ma era migliorista, e i miglioristi prendevano il nome da Togliatti che era il migliore. Non ho un buon ricordo. Anche da Presidente della Repubblica non mi lascia un buon ricordo. Io ho considerato Napolitano la versione di sinistra di Oscar Luigi Scalfaro. Due gemelli, uno nella Dc e l’altro nel Partito comunista».

Quella che racconta Zavettieri è «un’esperienza negativa» che all’epoca, anni ’90, sfociò anche in una accesa polemica. Al tempo il politico di Bova Marina si occupava di giustizia - «la Calabria è stata tormentata dai problemi della mala giustizia», dice – e delle sedute della Commissione Antimafia. Era prassi che i partiti segnalassero a Camera e Senato i potenziali componenti in una lista di sei nomi. In quella dei socialisti al numero due c’era proprio Zavettieri. «Napolitano mi depennò. Perché qualcuno del mio partito, certamente calabrese mi segnalò in questo senso. Io in Calabria mi battei contro Cordona che indagò tutti i parlamentari socialisti escluso me e Mancini. C’era un attacco ad un partito che era cresciuto molto negli anni ’90 e che era diventato il secondo partito in Calabria. Mi ero esposto in questa battaglia, ed ho avuto ragione e lui non è riuscito a mandarmi neanche un avviso di garanzia, nonostante le campagne di Repubblica contro i socialisti e il sottoscritto. Per questo rimasi fuori dall’Antimafia. Protestai, ma non cambiò nulla. A ovviamente Napolitano seguiva altre logiche».

L’attentato e l’era Berlusconi: «Mi offrì la presidenza della Regione»

«Non ho mai frequentato i potenti. Neanche Bettino Craxi. Io sono diventato craxiano quando Craxi è andato giù. Io difendevo la mia autonomia, periferico, se vuole, stavo con la sinistra, facevo il mio dovere, ma difendevo la mia autonomia».

Ma poi arrivò Silvio Berlusconi. «Con lui ho avuto più rapporti, ma senza frequentazioni» dice Zavettieri che rispolvera i fatti politici dell’inizio del nuovo secolo, ricordando la partecipazione alle regionali del 2000 con una lista che prese circa 25 mila voti, e che risultò decisiva per la vittoria del centrodestra. «Sono rimasto di formazione di sinistra, ma l’ho fatto perché in quegli anni non ho digerito il ribaltone ad opera di un gruppo di avventurieri della Dc che hanno stravolto le cose». Nasce così l’alleanza con il centrodestra. Erano gli anni dell’avvio della costruzione del Nuovo Psi con Gianni De Michelis segretario. E in Calabria si registrarono i numeri più alti.

Il 22 febbraio del 2004 però, quando si trovava nella sua casa di Bova, un colpo di arma da fuoco fu esploso contro la vetrata della sua abitazione. Solo il sistema anti-proiettili salvò l’esponente politico da quell’agguato. Un fatto che ha segnato il parlamentare reggino che provò a configurare uno scenario davanti ai giudici che però, nel 2012, decisero di archiviare.  

«Ho avuto un attentato nel 2004, che non era una intimidazione, ma un vero attentato per farmi fuori perché hanno preso la mira. Questa cosa mi ha portato alla ribalta nazionale, ma il centrodestra invece di cavalcare la cosa l’ha azzerata. Ho dichiarato che l’attentato veniva dall’interno del centrodestra, e ho dimostrato pure per quale motivo. La Procura ha tenuto ferma la vicenda per tre anni, e dopo l’ha archiviata dicendo però che la mia ricostruzione era verosimile».

Più avanti si disse che in qualche modo l’attentato a Zavettieri, anticipò l’omicidio di Francesco Fortugno, di cui proprio il 16 ottobre è ricorso il 18esimo anniversario.

«Ho dichiarato che se avessero indagato fino in fondo sul mio attentato probabilmente quello di Fortugno non si sarebbe verificato. Perché si sarebbero scoperti gli interessi retrostanti».

«Venne il ministro dell’Interno Pisano, con Berlusconi presidente del Consiglio. Venne in Consiglio regionale, ma non mi fecero parlare. Il presidente del Consiglio Luigi Fedele accampando scuse non mi diede la parola. In realtà perché sapevano cosa avrei detto. Pisano ebbe una buona impressione di me. Chiesi un incontro con Berlusconi che me l’accordò. Lo raggiungemmo a via del Plebiscito insieme a De Michelis. Parlammo circa un’ora e mi fece delle domande. Io gli dissi quello che pensavo e le mie convinzioni. Mi volevano cacciare dalla giunta e mi avevano sfiduciato ufficialmente con la motivazione che non avevo gruppo. Io avevo più esperienza degli altri, operavo in maniera disinteressata, e Chiaravalloti considerava me e non gli altri che gli chiedevano sempre posti, posti e posti. Anche per questo io mi aspettavo dal cavaliere una presa di posizione nei confronti del centrodestra, per far fare una indagine seria. La risposta testuale di Berlusconi fu questa: «Ma gli altri non sono migliori». Io non l’ho mai considerato uno statista e questa risposta non è quella che ti aspetti da un presidente del Consiglio».

«L’anno dopo Berlusconi mi offrì la candidatura per la presidenza. Io declinai. A parte che non me la sentivo, non accettai perché era una candidatura perdente. Proponendo Abramo quale candidato, che ha perso, ma era il candidato migliore».

Decisivo per il centrosinistra

Nel 2005 il congresso del Nuovo Psi, e la rottura verticale con De Michelis, aprono una nuova fase. Nonostante le offerte di entrare nel governo, di fare il ministro del Programma o il vice ministro, Zavettieri rompe con il Cavaliere. «Non ci credevo più», dice, raccontando che nel 2006 ha messo su una lista nazionale presente in 15 circoscrizioni e in 6 regione, prende i voti sufficienti (circa 130 mila) per far vincere il centrosinistra. «Questa cosa ha cambiato il corso della storia. Il centrosinistra non lo ha mai riconosciuto, riservandomi un trattamento speciale. Eravamo nove liste e Prodi non ha retto la prova. Nel 2008 il Cavaliere memore dello scherzetto del 2006 mi fece chiamare da Cicchitto per offrirmi la candidatura alla Camera. La offrivano a tutti e quindi anche a me e Santo Versace».

Zavettieri però non ci crede più. Non crede a quel centrodestra che pure l’aveva trattato coi guanti. Lui non accettò di farne parte.

La Calabria «divisa» di Occhiuto

«Bisogna scindere la Calabria da Occhiuto. La Calabria è quella che è, si presenta sempre una regione frammentata e divisa, il suo punto di maggiore debolezza perché non è riuscita ad unificarsi. Ma si riconosce in sé stessa, con pregi e difetti».

Insomma, per lui la politica non è riuscita a riunificarsi e a riunificare, prima dei fatti di Reggio, con i fatti di Reggio e dopo i fatti di Reggio.

«Avrebbe invece avuto bisogno di una classe dirigente regionale, una dimensione e una visione regionale, che poteva averla solo nella prima Repubblica quando c'erano i partiti nazionali e regionali, la circoscrizione unica alla Camera. Quindi è già venuta meno questa caratteristica unificante, poi la classe dirigente è scaduta, perché sono scaduti i partiti, quindi prevale il particolarismo e non escludo nessuna delle giunte che sono succedute dal 95 in avanti».

Il giudizio sul presidente Roberto Occhiuto, seppur sostanzialmente positivo, non si discosta da questa visione disgregata della nostra regione.

«Occhiuto ha i numeri per fare il presidente, ha la dimensione, un’esperienza politica ultradecennale e credo che abbia anche cultura riformista. Anche perché uno che piglia la regione nella condizione in cui la piglia, e tra l'altro è ancora giovane, penso che non la considera una cosa passeggera. Dovrebbe quindi gestire le cose nell'interesse della Regione, anche se poi le spinte localistiche dei poteri locali hanno la loro influenza».

Anche il progetto che porta avanti Occhiuto, per lui, è una cosa per così dire a doppia faccia, «perché c'è l'accentramento notevole dei poteri che è determinato dal fatto di avere una squadra, salvo qualche eccezione, debole, e che è l'espressione della struttura della politica regionale, che non conta leadership politiche nei partiti, oltre la sua».

 

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