Il regista di Missoula ha compiuto 78 anni lo festeggiamo con cinque film. Esponente dell’avanguardia post-industriale esordì con Eraserhead, regalando al mondo Twin Peaks che l’8 aprile del 1990 cambiò per sempre la storia della tv
Buon compleanno Mr. Lynch, l’uomo dei meravigliosi incubi
Buon compleanno Mr. Lynch, l’uomo dei meravigliosi incubi
Buon compleanno Mr. Lynch, l’uomo dei meravigliosi incubi
Buon compleanno Mr. Lynch, l’uomo dei meravigliosi incubi
Buon compleanno Mr. Lynch, l’uomo dei meravigliosi incubi
Buon compleanno Mr. Lynch, l’uomo dei meravigliosi incubi
Buon compleanno Mr. Lynch, l’uomo dei meravigliosi incubi
Anche se tutto si sciogliesse, se il sogno scivolasse via dalle spalle, se la realtà – solida e rassicurante – tornasse a definire i contorni del mondo, non basterebbe allo spettatore per levarsi di dosso la gelatina di un incubo che ha un autore prediletto. David Lynch abita dalle parti degli angoli elettrici, dove prese di corrente sono pareidolici visi impauriti, porte da attraversare per entrare nel mondo del regista di Missoula, uomo spericolato e pericoloso perché maestro nel disseminare nell'inconscio di chi guarda le sue opere, perle di piombo di massa aliena.
L’autore ha compiuto da poco 78 autunni. La sua ultima apparizione come attore è stata per Spielberg che gli ha chiesto di vestire i panni di John Ford in The Fabelmans. Ruolo che Lynch ha accettato a patto di essere pagato con un pacchetto di patatine Cheetos. Che sia vero o no, la bizzarria della leggenda disegna alla perfezione l’autore che ama trasmettere brevi video in cui illustra le condizioni meteo di Los Angeles quotidianamente, rendendole forme d’arte contemporanea.
Le sue abitudini disegnano l’uomo: caffè in quantità industriale, sigarette, meditazione trascendentale, Francis Bacon, Federico Fellini. Il pranzo per sette anni sempre allo stesso Diner, il Bob’s Big Boy di Burbank di Los Angeles e sempre alla stessa ora: le due e mezzo del pomeriggio, che secondo i suoi calcoli era l’ora perfetta perché la macchina del milkshake si scaldasse a dovere. Maniacale, osservatore, eccentrico è perseguitato da ombre al seguito senza le quali forse sparirebbe in una di quelle fenditure in cui la realtà mostra l’inganno. Il regista dipinge il suo universo complesso senza sentire mai il bisogno di dare una spiegazione, il che non significa che non ce ne sia una. Semplicemente, a differenza di tutti gli altri registi non allunga un laccio da seguire, mettendo un piede via l'altro fino al termine della storia, per poi fare un nodino a indicare: qui finisce.
Per tutti questi motivi Lynch non è uomo da incontrare per diletto, sperando che la visione di un suo lavoro divenga materia di conoscenza scomponibile e spendibile nei salotti di chiacchiere. Lui non è per tutti così come non lo è il suo Elephant man, all'apparenza un film bonario, in realtà scudisciata a tradimento per lo spettatore incauto, in cui la malvagità umana si misura sull'ombra che essa proietta sul bene; non lo è soprattutto Eraserhead - in cui Twin Peaks è immerso fino al capo - un'opera che Lynch racconta come la sua migliore, figlia del periodo professionalmente più felice. Osannato dai fedelissimi (e a ragione, specie nel mitologico episodio 8) è l’ultima stagione di Twin Peaks (quella del 2017) che mostra il conto aperto con Mulholland Drive, in cui è una scatola blu (il colore del cinema lynchiano) la porta del mondo parallelo, dimensione naturale per un volto incipriato che si prende gioco del tempo in "Strade perdute". "Cuore selvaggio" è invece un valzer a due per Nicolas Cage e Laura Dern, e nell'84 prese la Palma d'oro dalle mani di Bertolucci, e prende il titolo da una famosa soap (genere-giungla dal quale il regista attinge in diverse occasioni). A perseguitare per anni Lynch è Laura Palmer, tanto che la riprenderà per mano in "Fuoco cammina con me", film che a Cannes fece infuriare Tarantino e considerato non tra i migliori della sua produzione.
Il gioco sotterraneo di Lynch, tra simbolismi e totem, è un'esperimento di visione collettiva partecipata, ma sotto lo strato dei balocchi c'è il suo messaggio, il senso delle cose che sono giuste e sbagliate insieme, amalgama di buone e cattive intenzioni. Non ci sono doppelgänger, in verità, a muoversi tra le dimensioni, solo copioni diversi per marionette diverse mosse da un filo al cui capo c'è lui, Lynch, e come in Pasolini in "Che cosa sono le nuvole?" il burattinaio è a vista.
Per quelli non preparati a un viaggio in un corridoio stretto quanto quello dei sogni peggiori, con le pareti tappezzate di frammenti oscuri di Bacon e dei personaggi lenti e poi immobili di Hopper, l'ossigeno finisce presto, meglio fuggire subito e dimenticare la porta con i sicomori a contorno. Ci si rassegni: il male è dentro ognuno di noi, ci abita. Ed è inutile illudersi: nessuno potrà mai cambiare il suo destino neanche se qualcuno venisse a riprenderci da un futuro-passato per condurci per mano fuori dal bosco. (clicca Continua per leggere)
Gli scheletri dei pali rastremati della corrente elettrica. I douglas firs, sentinelle immerse nel cotone della nebbia. La riva ghiaiosa di un lago. Il sogno di bruma di un autunno eterno. Al Double R Diner di Twin Peaks stanno appena servendo la seconda porzione di torta alle ciliegie, la cameriera sorride nel suo completo verde chirurgico. L’incubo preferito di David Lynch comincia con lo scricciolo di Bewick che dà il benvenuto a Twin Peaks zampettando su un ramo, su una città di confine tra due Stati, tra sogno e veglia. Il neon dell’obitorio emette scariche come se stesse arrostendo una farfalla notturna. Una ragazza urla e si tiene le mani sulle orecchie e attraversa di corsa il cortile della scuola. Qualcosa è accaduto. Qualcosa di brutto.
Mercoledì 9 gennaio nel 1991 alle 20:40, anche l’Italia scoprì Twin Peaks. La domanda: chi ha ucciso Laura Palmer? diventerà un’ossessione a cui il genio di Lynch risponderà a modo suo ma non con i tempi che avrebbe voluto. Dopo una prima stagione folgorante, la seconda segnò il declino commerciale. La colpa fu dell’emittente Nbc che fece pressioni su Lynch perché svelasse il nome dell’assassino il prima possibile. Costretto a piegarsi, Lynch assistette alla progressiva perdita di ascolti fino alla cancellazione della serie. Senza l’amico Frost, firmò “Fuoco cammina con me” un prequel della storia di Laura Palmer che tuttavia la critica non apprezzò affatto e neanche Tarantino che usò parole piuttosto colorite. 25 anni dopo, Frost e Lynch annunciano a sorpresa la terza stagione che nel 2017 con Ritorno a Twin Peaks chiude (chiude?) una serie surreale, visionaria e terribilmente spaventosa.
Twin Peaks nacque dopo che naufragò l’idea di un film che Lynch aveva pensato dopo “Velluto Blu”. L’incontro con Mark Frost, che stava per mettere mano allo script su un’opera dedicata a Marilyn Monroe (“Goddess”) produsse invece una curiosa sceneggiatura: “Una bolla di saliva”. Due attori avevano già detto sì al progetto: Martin Short e Steve Martin. La storia raccontava di un cortocircuito innescato da una bolla di saliva di una guardia giurata chiamata a sorvegliare un laboratorio top secret. Per il guasto, un satellite governativo aveva inviato un raggio in grado di scambiare i corpi degli abitanti di Newtonville creando conseguenze paradossali (che Lynch paragonò a quelle di “Una poltrona per due”). Il progetto abortì perché la casa di produzione di Dino De Laurentiis fallì e il tema della “sostituzione” troppo abusato per ingolosire altri produttori.
L’ingresso a Twin Peaks è l’inferno della ripetizione scandito dal dream pop di Badalamenti, suo amico complice, braccio destro armato di spartito che Lynch saluterà per sempre con sole tre parole: «Today no music». Il tutto suona come un secco schiocco di dita, con una nota da sintetizzatore allungata come un filo di bava, fino al quinto battito del cuore. Al limite della resistenza. Tutto l'innocuo intorno è incubo che batte in petto: la chioma di Laura Palmer scurita dalla pioggia, la sua pelle violacea, i granelli di sabbia che paiono pietre preziose, il rumore del sacco di plastica, il camion senza rimorchio, il cumulo di terra, le rotaie, le tende a ovatta vicino all'insegna di Big Ed. Le voci parlano di Laura senza Laura. Anche il ceppo di legno vuole raccontare di quella notte nel bosco, la notte in cui il fuoco ha camminato con lei. Cos'è successo quella notte? Eppure lo sapevamo. (clicca Continua per leggere)
Luci su un palco. Una donna (Isabella Rossellini) canta di una lei vestita di blu, in una notte più blu del velluto. Ha i capelli vaporosi, l'abito nero le lascia scoperta la schiena. Jeffrey Beaumont, uno studente come tanti, tornato nella sua città natale per assistere suo padre, la osserva ipnotizzato. Quella bocca, quegli occhi sono un richiamo selvaggio pieno di promesse. Lui non lo sa ancora, ma qualcosa di oscuro sta per afferrarlo. In quel momento, però, tutto sembra così dolce, così ineluttabile, anche il precipitare in un gorgo di sangue e violenza. Lynch chiama nel cast il suo attore feticcio, Kyle McLachland (che esordì per Lynch in Dune) per poi innamorarsi perdutamente della Rossellini. La scena con Ben (Dean Stockwell) che canta il pezzo di Roy Orbison "In Dreams" prima della declamazione di Frank (Dennis Hopper), è un capolavoro d'attesa e allucinazione. (clicca Continua per leggere)
Su Mulholland Drive di Hollywood, due auto si scontrano. Una donna, Rita, sopravvive allo scontro ma perde la memoria. Betty Elms, invece, è un'attrice appena arrivata dall'Australia e sogna di diventare una stella del cinema. Le due donne si sonoscono e finiscono per diventare amanti. Lynch torna a scuotere l’inconscio come fosse un tappeto con tante briciole sopra, stuzzicando l’ignoto e la dimensione dell’incubo. In un gioco di specchi, che gioca con la memoria, il film percorre di sghimbescio tutti i topos del regista, addentrandosi in scuri anfratti ai margini delle luci di Hollywood. I personaggi che animano l’opera del regista, complessa a voler decodificare ogni segno, spaventano a morte, e a scuotere l’animo è soprattutto la sensazione di essere immersi in una sorta di realtà parallela da cui non si può uscire, quasi come figuranti in un disegno di Escher, quello di un cubo impossibile senza possibilità di fuga. (clicca Continua per leggere)
Eraserhead è la summa della filosofia visionaria di Lynch ed è anche uno dei più bei film sulla paternità che siano mai stati girati. Lynch non va dritto al punto, ma il nucleo delle cose lo scava egli stesso, gli dà forma, come si fa con una statua ricavata dal marmo. In questo film, girato in un bianco e nero antico, il regista ci regala la paura della paternità unita al timore dell’abbandono, alla necessità della cura, alla voglia di evasione, al peso del gudizio, il tutto vestito con gli abiti del sogno che cessa di avere la consistenza morbida e retorica della luce ovattata, e muta nel suo opposto. Il titolo in italiano venne tradotto alla lettera letteralmente in modo errato (la mente che cancella), quando invece indica la gomma che si trova sulla sommità delle matite (e che si ricollega alla storia). Parliamo di un'opera di avanguardia, girata con un piccolo gruppo di amici e collaboratori, ritratto post-industriale ricavato dalla pura astrazione, un puntello per la mente che rimbalza su sequenze orrorifiche che tuttavia stimolano pietà in chi guarda e una sorta di comprensione del male. C’è un uomo che diventa padre di un mostro, c’è un pianeta alieno, c’è la violenza e l’incubo e un futuro unto di macchine e ingranaggi dove anche la speranza vi rimane incastrata. (clicca Continua per leggere)
Tratto dalla vera storia di Joseph Merrick, uomo nato con una deformazione (sindrome di Proteo) e vissuto in epoca vittoriana, lo script arrivò nelle mani di Anne Bancroft (Il laureato) che la girò al marito Mel Brooks, che muoveva i primi passi nel mondo della produzione. Gli fu fatto il nome di Lynch per la regia, ma fu solo dopo la visione di Eraserhead che Brooks si convinse che fosse la scelta giusta. Tra i protagonisti spicca un giovanissimo Anthony Hopkins che veste i panni del medico Frederick Treves, misericordioso dottore che strappò Merrick a un futuro da fenomeno di baraccone. Grazie alle sue cure l’uomo Elefante si mostrò al mondo per quel che era: una persona colta, raffinata e gentile. Girato in un bianco e nero a mo’ di classico, il film tocca uno dei temi cari a Lynch: il diverso e la sua accettazione in un contesto sociale in cui il mostro si nasconde sempre sotto la maschera della meschina normalità. (clicca Continua per leggere)
Alvin Straight, contadino dell'Iowa nel 1994, a 73 anni suonati, decise che era ora di farla finita con quella vecchia lite. Prese il suo trattorino rasaerba e annunciò che avrebbe raggiunto la casa di suo fratello, con cui non parlava da dieci anni, per fare pace. In sei settimane macinò 386 chilometri a 8 chilometri orari. Qui Richard Farnsworth, grande comprimario del cinema americano, appare per l'ultima volta, strappando una candidatura all'Oscar. Lynch dimostra, come se ce ne fosse bisogno, che anche il più visionario degli autori, può mettere a fuoco piccole storie con una potenza deflagrante. In questo film, piccola perla luminosa, il regista tira fuori e lucida l'America dimenticata - anche se la più numerosa - quella rurale, che cammina ai margini, quella delle famiglie, dei campi arati, della fronte sudata. Quella che al chiasso preferisce il cielo e sotto quel cielo consuma i suoi drammi. Nell'ultima scena il grande Harry Dean Stanton.
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