Rivelazioni inedite

«È morto un innocente, peccato di Dio»: anche la sorella del boss pianse per Filippo Ceravolo

I verbali dell’ex killer Moscato. Nuovi dettagli anche sui progetti per fare evadere il boss ergastolano Bruno Emanuele: il nipote voleva uccidere gli agenti della Polizia penitenziaria che scortavano il superdetenuto

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di Pietro Comito
2 novembre 2023
06:15
Raffaele Moscato e Filippo Ceravolo
Raffaele Moscato e Filippo Ceravolo

Anche la sorella del boss pianse per quella vita innocente che fu spezzata: Filippo Ceravolo non doveva morire. Dunque, all’ipotesi immediatamente formulata dagli inquirenti, e cioè che il diciannovenne di Soriano nulla c’entrasse con la guerra di mafia riesplosa nelle Preserre vibonesi, offre un prezioso riscontro anche il collaboratore di giustizia Raffaele Moscato. Dai verbali dell’ex killer del clan dei Piscopisani, acquisiti nell’inchiesta Maestrale-Cartagho, cadono molti omissis. 

Il primo verbale

Moscato, 37 anni, spontaneo, lucido, circostanziato, sin dal suo clamoroso pentimento, svela una sequela impressionante di episodi criminali. Il 7 marzo 2015, detenuto nel carcere di Bologna, manifesta la decisione di collaborare attraverso un manoscritto inviato alla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Tre giorni dopo, il procuratore Camillo Falvo e due agenti della Squadra mobile del capoluogo emiliano iniziano a verbalizzare alla presenza dell’avvocato Annalisa Pisano. Delinea la struttura del gruppo ‘ndranghetista di cui era una bocca di fuoco, quindi il contesto geomafioso della provincia di Vibo Valentia e, in particolare, la composizione cartello criminale riottoso allo storico strapotere del clan Mancuso. Passa agli omicidi, consumati, tentati e progettati. Quindi getta uno spaccato di luce sulla scia di sangue ancora impunita delle Preserre


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La faida delle Preserre

Spiega come la genesi sia da ricercare nel duplice omicidio dei fratelli Giuseppe e Vincenzo Loielo, trucidati da Bruno Emanuele e Tonino Forastefano nel 2002. Gli Emanuele, così, sbaragliarono il territorio dai rivali. Nei dieci anni successivi, però, i figli di Giuseppe Loielo, crebbero meditando vendetta. Fu in particolare il primogenito, Rinaldo, a darsi da fare. L’agguato, fallito, ad un nipote di Bruno Emanuele, Giovanni Emmanuele, scatenò una serie omicidi e successive rappresaglie. Il 25 ottobre 2012, il bersaglio designato dai Loielo sarebbe stato Domenico Tassone, organico agli Emanuele, ma a rimetterci la vita fu Filippo Ceravolo. E di ciò, davanti al procuratore Falvo, ad un certo punto Moscato parla.

«Li maledisse»

L’eco di quel crimine superò i confini calabresi ed ebbe un impatto fortissimo anche in seno alle cosche locali. I Piscopisani, quindi il gruppo di Moscato, erano federati agli Emanuele. Il collaboratore svela che due giorni dopo l’omicidio, il suo capo militare, Rosario Battaglia - «nonostante avessi il divieto di dimora a Vibo», racconta Moscato, lo inviò a Gerocarne. Il compito era quello di mettersi a disposizione degli alleati finiti sott’attacco dei Loielo. Così si recò a casa della sorella di Bruno e Gaetano Emanuele. Dice ancora Moscato: «Io ci sono andato e lei è scoppiata a piangere dicendo che era stato commesso un peccato di Dio perché aveva ammazzato degli innocenti, come se li maledicesse». 

La richiesta di pentirsi

In quel periodo, il Vibonese era insanguinato da due faide: quella tra i Piscopisani ed i Patania di Stefanaconi e quella tra i Loielo e gli Emanuele nelle Preserre. Entrambe avevano un regista occulto, ovvero il boss di Nicotera Marina Pantaleone Mancuso detto Scarpuni, oggi all’ergastolo. Moscato, la cui pistola uccise il boss Nato Patania appena un anno prima dell’omicidio Ceravolo, era a piede libero. Scampato miracolosamente all’agguato che il 22 marzo 2012 era costato la vita a Francesco Scrugli, svela come già allora il colonnello dell’Arma dei carabinieri Daniele Scardecchia tentò invano di convincerlo a collaborare con la giustizia prima che fosse troppo tardi, ovvero prima che l’ammazzassero e che cadessero altri morti. Solo tre anni dopo, però, patito il peso del carcere, maturò la decisione di saltare il fosso. 

L’evasione del padrino

Agli inquirenti così riferisce anche del progetto di far evadere il Bruno Emanuele, ergastolano (e oggi al 41 bis), per gli omicidi dei fratelli Loielo, ma anche per quelli di Nicola Abbruzzese, l’8 giugno 2003, e di Antonio Bevilacqua, il 27 febbraio 2004, entrambi consumati a Cassano allo Ionio, assieme a Tonino Forastefano, poi divenuto collaboratore di giustizia. Il piano – racconta Moscato – fu studiato tra i mesi di novembre e dicembre del 2012, in decine di incontri. I Piscopisani intendevano assaltare il blindato della Polizia penitenziaria durante uno dei trasferimenti, ma volevano evitare spargimenti di sangue. Giovanni Emmanuele, nipote del padrino all’ergastolo, era invece pronto a tutto. Dice Moscato: «Lui ipotizzò di uccidere anche le quattro o cinque guardie carcerarie, dicendo appunto che lui non si doveva chiamare Giovanni ma si doveva chiamare “il Sanguinario”, io gli risposi “Se devi venire con questa testa, stattene a casa”, nel senso che non doveva assolutamente sparare in quanto non dovevano restare uccisi degli innocenti».  

Giornalista
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