La testimonianza

Ferramonti di Tarsia, il campo di internamento dal volto umano: «Mio padre fortunato a finire qui e non in Germania»

VIDEO | In occasione del Giorno della memoria, Adriana Taubert ha ricordato l'esperienza del padre che nel campo lavorò come insegnante: «Il nonno fu mandato a Birkenau ma non sappiamo neanche se è arrivato vivo». La direttrice del museo: «Qui anche un centinaio di medici che prestarono assistenza pure agli abitanti dei paesi vicini»

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di Emilia Canonaco
28 gennaio 2024
15:55

Il campo di internamento di Ferramonti di Tarsia fu costruito nell'estate del 1940 e gli ebrei che qui arrivarono - in seguito alle leggi razziali emanate due anni prima - occuparono le stesse baracche che, in precedenza, avevano ospitato gli operai impiegati nella bonifica dell'area, sul fianco del grande fiume Crati.

Teresina Ciliberti, direttrice del Museo internazionale della Memoria, precisa: «Fino al 1943, Ferramonti è stato un campo fascista ma, dall'armistizio all'11 dicembre del 1945, quando ne è stata dichiarata la chiusura, si è trasformato in un campo destinato a rifugiati, gestito dagli anglo americani. La differenza non è da poco, visto che questi ultimi erano cittadini liberi, e non più prigionieri perseguitati».


Il campo di Ferramonti è stato definito da uno storico "Il più grande Kibbutz d'Europa", all'interno del quali gli ebrei arrivati a Tarsia dal nord Italia, ma anche da altri Paesi europei, vissero per anni in una condizione di autodeterminazione. La direttrice Teresina Ciliberti chiarisce: «Sia pur nel vilipendio dei diritti umani e della libertà, queste persone si autodisciplinarono. Gli internati di Ferramonti erano nella maggior parte dei casi professionisti, tra cui molti avvocati. Da qui, passarono un centinaio di medici che, oltre a curare le famiglie che vivevano all'interno del campo, prestarono assistenza sanitaria anche agli abitanti di Tarsia e degli altri paesi del circondario».

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Il padre di Adriana Taubert, giunta a Ferramonti per partecipare alla celebrazione del Giorno della Memoria, insegnò matematica e disegno ai bambini costretti a vivere nelle baracche vicino al fiume Crati. «La mia famiglia era originaria di Leopoli, oggi città dell'Ucraina, un tempo appartenente alla Polonia. Quando nacque mio padre, i miei nonni si trasferirono in Germania, a Francoforte sul Meno. Dopo il diploma, mio padre decise di proseguire gli studi in Italia e si iscrisse all'Accademia di Belle Arti di Brera.

Dopo l'emanazione delle leggi razziali, cercò di recarsi in Francia dove, nel frattempo, i suoi genitori si erano trasferiti. La Gestapo, però, lo arrestò e lo rinchiuse nel carcere di San Vittore dove i prigionieri venivano smistati. Lui fu fortunato perché, anziché essere caricato su un treno diretto ai campi di concentramento, venne mandato a Ferramonti, e qui lavorò come insegnante. Di mio nonno, invece, partito su un carro bestiame diretto a Birkenau, non abbiamo più avuto alcuna notizia e non sappiamo neanche se sia arrivato vivo a destinazione».

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Il padre di Sigismondo Fimiani, venuto a Ferramonti per ricevere una medaglia commemorativa da parte della Prefettura di Cosenza, è sopravvissuto alle atrocità del campo di concentramento nel quale fu rinchiuso. «Era un maresciallo della Guardia di Finanza e, quando fu fatto prigioniero dai tedeschi, si trovava in Albania. Da lì fu trasferito direttamente in Germania. Ritornò nella nostra casa, in provincia di Avellino, nel 1946. Mia madre mi ha sempre raccontato che era ormai irriconoscibile: un teschio e due stampelle al posto delle gambe. Da allora, ebbe sempre terrore del filo spinato, piangeva se gli chiedevo di parlarmi di quello che gli era successo in Germania e, ogni volta che da piccolo facevo i capricci perché non volevo mangiare, mi rispondeva che c'era stato un tempo in cui lui si era cibato soltanto di bucce di patate e ortiche bollite».

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