Il panorama dei tormentoni estivi italiani dal 2010 a oggi sembra una lunga parata di hit costruite per la spensieratezza, dove la leggerezza si fa legge e il ritmo l’unica vera sostanza. C’è stata l’epoca delle queen della hit estiva: Giusy Ferreri con Roma-Bangkok (2015) insieme a Baby K, formula irresistibile di viaggio immaginario e base elettronica latina, un pezzo che si cantava persino senza capirlo, perché la sua potenza era tutta nel ritornello-martello. Negli anni successivi la stessa Baby K ha continuato a presidiare le classifiche, da Voglio ballare con te (2017) a Da zero a cento (2018), sempre con il sole, il mare e la fuga come parole d’ordine.

Poi ci sono stati i Boomdabash, veri e propri artigiani della hit estiva, capaci di sfornare quasi ogni anno un pezzo destinato a imporsi: Mambo Salentino (2019), Karaoke (2020), fino a Don’t Worry e oltre. La loro formula è stata semplice ma infallibile: reggae-pop, dialetto salentino qua e là, featuring con voci mainstream (da Alessandra Amoroso a Annalisa), e soprattutto testi leggeri, incentrati su ballo, amore fugace e voglia di evasione.

Nel frattempo la trap e il pop urbano hanno trovato un compromesso col tormentone. Italodisco dei The Kolors (2023) è stato il caso più recente: un pezzo che, pur non essendo propriamente latino, ha fatto da colonna sonora alle spiagge con il suo ritornello ossessivo. Ancora più indietro, Francesco Gabbani con Occidentali’s Karma (canzone vincitrice del Festival di Sanremo 2017) portava la dimensione ironica e parodica, ma con la stessa funzione: creare un fenomeno collettivo da cantare in piazza.

Ebbene, Un briciolo di allegria si colloca come corpo estraneo dentro questa tradizione. Non ci sono sole, mare, cocktail e corpi che si sfiorano. Non c’è l’euforia della fuga esotica o della notte che non finisce mai. C’è, piuttosto, la fragilità di un sentimento che cerca un appiglio. Il testo è minimalista: la richiesta non è un mondo, non è un viaggio, non è una notte infinita, ma solo “un briciolo”. La misura dell’estate di Mina e Blanco non è l’eccesso, ma la sottrazione.

Sul piano musicale, il confronto è ancora più evidente. Le hit di Ferreri, Baby K o Boomdabash sono costruite su beat facilmente riproducibili, con l’inciso che esplode dopo una breve attesa, perfette per il ballo collettivo. In Mina e Blanco, invece, l’arrangiamento lascia spazio alle voci, quasi fosse un duetto teatrale. Non c’è l’intento di far ballare, ma di far fermare il tempo.

E poi c’è la questione della vocalità. Giusy Ferreri e Baby K hanno sempre giocato sulla riconoscibilità timbrica, ma senza mai davvero approfondire l’espressività; erano più “brand vocali” che interpreti. Mina, al contrario, resta interprete totale: la sua voce non ha bisogno di alzare il volume, ma di colorare le parole, di trasformarle in esperienza. Se Blanco strappa, graffia, tende alla frattura emotiva, Mina stende un velo, lo rende eterno. È questo a trasformare Un briciolo di allegria in qualcosa di più di un tormentone: un piccolo manifesto della diversità, un gesto che ribalta la legge del mercato estivo, introducendo il paradosso della malinconia dentro la stagione più euforica.

Si potrebbe dire che Blanco porta la sete, Mina la memoria: l’incontro genera una canzone che non chiede di essere cantata a squarciagola sulla spiaggia, ma di essere ricordata anche dopo, a luci spente, quando l’estate si ritira e resta il bisogno – minimo, disperato, universale – di “un briciolo di allegria”.