Una civiltà millenaria si dissolve; e bisogna trascriverne la vita, perché ci «si ricordi che è esistito un paese […] veramente antico»
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Corrado Alvaro
È il titolo alvariano più famoso nel mondo, quello con cui viene identificato. Ma è anche il simbolo di una Calabria arcaica che tenta di uscire dalle prepotenze feudali, per incamminarsi verso un nuovo destino, senza poterlo fare. È vero, tutto ciò, come anche che questa raccolta di tredici racconti e novelle, pubblicata nel 1930, è molto più complessa e variegata nei suoi contenuti. Per alcuni mesi Alvaro era stato a Berlino, con Pirandello: tutti e due in diverso modo esuli da un'Italia matrigna. E buona parte delle narrazioni di Gente in Aspromonte è stata scritta lì, anche se il famoso attacco di questo “racconto lungo” (o romanzo breve: «Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d'inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare») è apparso il 4 gennaio 1927 sulla «Stampa» di Torino, insieme ad altre tessere del mosaico (le ultime due sono del febbraio 1930), mentre l’intero racconto è stato pubblicato su «Pegaso» nel maggio-giugno 1930, prima di riapparire subito dopo nel volume eponimo, aprendolo.
Gente in Aspromonte caratterizza la poetica alvariana di questa fase e ne coagula il mondo mitonarrativo. Ma non deve essere immiserito e degradato in una lettura univoca, all’insegna di un contenutismo regionalistico e di una fruizione “coloniale” ed ‘esotica’ del suo arcaico universo agropastorale. L’esperienza tedesca, dopo quella francese, ha rappresentato il contatto con una civiltà nuova e spaurente, improntata alla velocizzazione della vita, alla solitudine anonima delle metropoli e al vagheggiamento della violenza bellica; e ha suscitato per antitesi il riaffioramento memoriale di un mondo antico, racchiuso in un respiro plurisecolare.
Il dato più interessante – e non rilevato – è che queste narrazioni sparse si compongono in un mosaico coerente. Le due narrazioni più lunghe (il racconto che dà il titolo complessivo e Ventiquattr’ore, uscite ambedue su «Pegaso») sono state collocate ai suoi estremi, in prima e ultima posizione. Andando poi a indagare nella (e sulla) successione di tutti i tredici elementi della raccolta, si scopre che è possibile cogliervi una cadenza binaria, ove si eccettui una unica scansione ternaria. Nell’eponimo Gente in Aspromonte la violenza sopraffattoria della famiglia feudataria, che suscita la vendetta della vittima, si riverbera sul femminicidio di La pigiatrice d’uva, perpetrato per stroncare la libertà di colei che voleva infrangere sessualmente la sottomissione storica del suo ruolo. Nel dittico successivo, Il rubino e La zingara, affiora la volontà di emigrare, di fuggire, di cambiare la propria condizione, con il ritorno sconfitto in un alveo di paese o di servitù.
Con Coronata e Teresita Alvaro inquadra due casi estremi di soffocazione femminile, di asservimento al patriarcato, di sottomissione a un costume arcaico. Si impernia su figure di giovani donne, dominanti in Gente in Aspromonte, e crea una galleria di protagoniste che ha il suo fulcro nel successivo e unico trittico: Romantica (la donna-serva, eguagliata agli animali domestici), La signora Flavia (unico simbolo di bellezza in un contesto squallido di paesanità) e Innocenza (la prostituta rinverginata per una notte dall’ospitalità data a un giovane). Si torna alla violenza maschile e alle stratificazioni antropologiche del microcosmo paesano con Vocesana e Primante (un omicidio che segna la perdita del sacro) e con Temporale d’autunno, che delinea il rifiuto di una lunga inimicizia familiare e la fuga dell’uomo ― insieme alla donna consegnatagli dal destino ― verso altri mondi. E sull’impossibilità di un ritorno dalla città al paese, sull’emigrazione in lontane realtà urbane di oltreoceano, sono rispettivamente imperniate le due narrazioni conclusive, Cata dorme e Ventiquattr’ore, con cui si chiude il percorso di Gente in Aspromonte dalla condizione feudale all’ingresso nella contemporaneità cittadina.
È una civiltà millenaria che si dissolve, ha scritto Alvaro in Addio al paese («La Stampa», 24 marzo 1929): bisogna trascriverne la vita, perché ci «si ricordi che è esistito un paese […] veramente antico». È finita «al tempo giusto, quando doveva finire», la «nostra splendida inciviltà», quella in cui nessuno poteva concepire l’idea che si potesse «mutare condizione» o che il popolo potesse impugnare «l’ascia giustiziera». Ma poi dai paesi è cominciata l’emigrazione, «con la nostra dura forza di soffrire»; e «a ogni nostra partenza, un mito paesano crollava», facendo intravedere «un mondo più libero». La vita spenta dei paesi addormentati nelle valli si è animata: la costruzione delle strade ha fatto crollare i diaframmi plurisecolari e «una civiltà scompare» («come al contatto dell’aria le antiche mummie si polverizzano»), senza che debba essere rimpianta, perché profondamente ingiusta; ma c’è stata, e bisogna trarne e salvarne, «chi ci è nato, il maggior numero di memorie».
Prima, dunque, che si consumi questa scomparsa, la scrittura alvariana vuole percorrere il tempo arcaico della società e della Storia, in contrapposizione all’alienazione e alla solitudine anonima della nuova civiltà, in cui però bisogna vivere; e anche – per Alvaro – un ancoraggio all’identità e alla memoria, nel momento in cui l’intolleranza fascista lo spingeva ad emigrare a Berlino. Nel lungo racconto eponimo il turbamento originato dalla realtà della vita in un pastorello, e la scoperta iniziatica del mondo e della durezza delle sue leggi, sono innestati in un itinerario di formazione che spinge il protagonista ― in una luce dolorosa di conoscenza ― a rivoltarsi contro una società ancora feudalizzata e a vendicare il sopruso subìto, provocando la rovina economica dei persecutori della sua famiglia.
Dalla solitudine dell’eremo montano, in cui vive una vita inclemente ma chiusa in un cerchio protetto d’orizzonte, il bambino Antonello Argirò scende in paese dopo che la mandria di buoi custodita dal padre è precipitata in un burrone; e lo accompagna nelle stazioni dolorose di una via crucis che si snoda dentro i palazzi dei potenti Mezzatesta, avendo la prima acuta percezione dell’ingiustizia della condizione servile. Alvaro traccia così il passaggio dalla favola della vita alla rivelazione della sua realtà attraverso la comunità infantile del paese, che riflette le leggi e le violenze del mondo adulto, creando uno sfondo vivo di spazi e di interni, di voci e figure, negli anni antecedenti il terremoto del 1908.
A dominare è la legge rapace della roba, che muove la tentata ascesa sociale di Argirò padre mediante l’invio di un figlio in seminario: un progetto cancellato con la violenza dagli eredi del vecchio casato nobiliare, che temono di perdere il loro potere feudale. Ma dopo essersi innalzata ai toni della tragedia, con la rivelazione di un incesto e con la cecità di un Mezzatesta (a seguito dell’incendio appiccato per ritorsione da Antonello), la narrazione sfuma genialmente in un finale aperto. La ribellione di Antonello, che depreda i ricchi per donare ai poveri e per vendicarli, in attesa di poter parlare con uno Stato sino ad allora lontano e silente (e poi soltanto punitivo), non può che tingersi dei colori profetici dell’utopia in forma di parabola.
Evitando le imbottiture del romanzo, la scrittura alvariana è trasposta naturalmente in simbolo, come mai prima. Quel mondo agropastorale – ancestrale e arcaico – è già lontano, è già tramontato; e la voce del narratore, ormai lontano da esso nel tempo e nella vita, non può che riviverlo attraverso il filtro liricizzante (ma non nostalgico) della memoria, instaurando una dialettica vitale fra ciò che egli è divenuto e ciò che è stato quando ne faceva parte, così ritrovando nella carne linguistica dei suoi personaggi il sostrato terragno del dialetto materno. Il decorso della società patriarcale, giunta alla lenta implosione dei suoi codici plurisecolari, non può che essere simbolizzato attraverso il rapporto maieutico del bambino con il padre, che diviene lo strumento attraverso cui si innesca la conoscenza del reale, dando vita a uno stupendo racconto di formazione.
L’azione eclatante di Antonello non deve oscurare il dato che la reazione più incisiva ― che cambierà davvero l’immobilismo delle classi ― è quella di Argirò, il vero personaggio centrale di Gente in Aspromonte, che persegue un fine (il figlio prete) che sarebbe la realizzazione di un riscatto e di un mutamento di condizione. Benché soprannominato «Zuccone», Argirò reagisce con le armi della volontà e del sacrificio, dell’intelligenza e della intuizione: comprende che il mondo sta cambiando; e concepisce l’azione pacificamente eversiva di incrinare la struttura antiquata della società mandando l’ultimo figlio a studiare in seminario, per far uscire la sua famiglia dall’appartenenza ai dannati della terra e del pascolo.
Vittima sacrificale, Antonello aveva accettato il disegno del padre, lavorando come una bestia per mandare i soldi a casa; e si eclissa dalla scena narrativa ― occupata dal tratteggio acre della comunità paesana ― per ritornare in essa, malato, solo dopo l’incendio della stalla e la morte della mula. E risponde al fuoco con il fuoco; ai buoi caduti nel burrone, nel primo capitolo, con il gregge di Filippo Mezzatesta fatto precipitare in un dirupo; alla carne macellata, dopo la «disgrazia» di Argirò, e venduta a poco prezzo, con la carne di tutte le bestie dei Mezzatesta, distribuita gratuitamente o venduta ai mercanti per dare soccorso ai poveri. Poi va incontro ai carabinieri, venuti ad arrestarlo: «“Finalmente”, disse, “potrò parlare con la Giustizia. Ché ci è voluto per poterla incontrare e dirle il fatto mio!”».





