La comunicazione natalizia, per essere autentica, dovrebbe raccontare più verità, meno estetica e più relazioni: non importa quanto sia curata ma quanto sia sincera
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Ogni anno, quando arriva dicembre, assistiamo a un cambiamento quasi automatico nel modo in cui comunichiamo, nei brand e nelle persone. È come se il Natale sbloccasse un registro emotivo che il resto dell’anno teniamo chiuso in un cassetto. Le aziende cominciano a parlare di casa, famiglia, ritorni, abbracci, comunità; le persone cercano di ritrovare un senso di calma e di affetto, anche se spesso solo per pochi giorni. Eppure, dietro questa ritualità comunicativa, c’è qualcosa di più profondo che merita di essere osservato: come cambiano i messaggi, cosa ci raccontano della società, cosa ci manca e cosa vorremmo ritrovare.
Qualche anno fa il Natale era raccontato in modo più semplice e meno patinato. Io stesso, come tanti cresciuti in Calabria, ricordo le tavolate lunghe, le sedie aggiunte all’ultimo momento, i piatti che arrivavano senza un ordine preciso, qualcuno urlava dalla cucina, qualcuno apriva le finestre per far uscire il fumo del forno. E in quei momenti nessuno sentiva il bisogno di mostrare tutto su internet. Non c’era l’ansia di apparire, di fotografare la tavola perfetta, di condividere il “Natale ideale”. Oggi invece succede spesso: la tavola deve essere bella, l’albero armonizzato, il pacco regalo instagrammabile. È come se una parte della magia fosse stata sostituita dalla performance. E questo inevitabilmente si riflette anche negli spot natalizi.
Gli spot di Natale, nel tempo, sono diventati una specie di specchio sociale: se la società ha bisogno di nostalgia, gli spot diventano nostalgici; se ha bisogno di leggerezza, diventano ironici; se ha bisogno di sentirsi meno sola, diventano emotivi. Ce ne sono tanti che potrei citare, ma uno in particolare mi è rimasto più impresso di altri: uno spot tedesco di qualche anno fa in cui un papà anziano, rimasto solo a Natale, finge la propria morte per convincere i figli – lontani fisicamente e soprattutto emotivamente – a tornare a casa. Quando arrivano, spaventati e addolorati, trovano invece la tavola di Natale apparecchiata e il padre seduto che li guarda con delicatezza. Lo spot è una sintesi terribile e attualissima della distanza che spesso creiamo senza rendercene conto. Fa riflettere non solo sul valore degli affetti, ma su quanto sia fragile il tempo che abbiamo a disposizione per viverli davvero. E quanto il Natale, con tutta la sua retorica, serva anche a ricordarcelo. O almeno dovrebbe. E sarebbe bello non dimenticarlo, tra un regalo di gioielleria e un panettone fashion.
La comunicazione natalizia oggi si muove su due binari principali. Da un lato c’è quella molto costruita, fatta di atmosfere perfette, luci morbide, famiglie splendenti e sorrisi senza macchia. Questa è la comunicazione che rassicura, che vuole farci immaginare un mondo ideale, senza problemi e senza disordine emotivo. Dall’altro lato, però, sta crescendo un filone più realistico, più umano, che parla delle mancanze, dei vuoti, delle distanze e della solitudine. È una comunicazione che non vuole solo vendere, ma provocare una riflessione. Non a caso sempre più brand scelgono storie vere, fragili, imperfette, perché rispecchiano la vita di chi guarda.
E qui ritorna il legame con il nostro territorio, con la Calabria e con tutto ciò che il Natale rappresenta culturalmente. Da noi il concetto di comunità è ancora fortissimo, anche se a volte ce ne dimentichiamo. Le case si riempiono, le cucine diventano laboratori continui, gli arrivi dai treni e dagli aeroporti sono sempre emozionanti. È una terra dove il Natale non è mai solo un momento commerciale: è un ritorno, un rivedersi, un ricordare. E allora la comunicazione natalizia, per essere autentica, dovrebbe tenere conto di questo: raccontare meno perfezione e più verità, meno estetica e più relazioni.
Oggi siamo bombardati da immagini curate, filtri, video pieni di luci e neve artificiale. Ma se pensiamo davvero al Natale, quasi nessuno ricorda un dettaglio estetico. Si ricordano le voci, gli odori, una frase detta da qualcuno, il rumore dei passi in corridoio la mattina. La comunicazione che funziona davvero è quella che riporta le persone a quelle sensazioni. Non importa quanto sia curata, importa quanto sia sincera.
Forse proprio questo dovremmo recuperare: l’idea che la magia non sta nella forma, ma nel contenuto. E che il Natale, pur cambiando nel modo di essere raccontato, resta un momento che ci obbliga a fare i conti con ciò che abbiamo trascurato durante l’anno. Gli spot più forti sono quelli che, anche solo per pochi secondi, ci fanno fermare e ci chiedono: “cosa stai facendo davvero per le persone che ami?”. È una domanda semplice e destabilizzante. Ed è una domanda che vale più di qualsiasi albero addobbato alla perfezione.
Il Natale dovrebbe aiutarci a recuperare un senso, non a perderlo in un mare di immagini perfette. La comunicazione può diventare un ponte, non un ostacolo, se ha il coraggio di dire le cose come sono: che siamo spesso troppo occupati, troppo distratti, troppo lontani, e che servono momenti simbolici per ricordarci ciò che conta. Non è un difetto, è umano. Ed è anche per questo che continuiamo ad aspettare il Natale con un misto di nostalgia e speranza.
In fondo gli spot, le campagne, i messaggi e le luci non sono altro che un linguaggio condiviso che ogni anno proviamo a reinventare per non perdere il contatto con un’emozione antica. E se è vero che il mondo cambia, che i social hanno trasformato il modo in cui viviamo e mostriamo la festa, è altrettanto vero che dentro ciascuno di noi rimane un’idea irrinunciabile: quella di un tavolo, di una famiglia riunita – anche se con difficoltà – e di un momento in cui proviamo a essere migliori, anche solo per un giorno.
Forse il Natale serve ancora a questo. E vale la pena non dimenticarlo.
Buona Comunicazione a tutti.

