Storia nera

Caso Moro, l’attacco al cuore dello Stato all’ombra della ‘ndrangheta

Quarantacinque anni fa il presidente della Dc veniva rapito e la sua scorta trucidata dalle Brigate Rosse. Il ruolo mai definito della criminalità organizzata calabrese: dalla presenza di ‘Ntoni Nirta “due nasi” alle armi dei De Stefano (ASCOLTA L'AUDIO)

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di Consolato Minniti
16 marzo 2023
06:45

Roma, 16 marzo 1978. Alla Camera dei deputati tutto è pronto per il dibattito e il successivo voto di fiducia del quarto governo presieduto da Giulio Andreotti. È un momento storico di particolare rilievo perché, per la prima volta da oltre un trentennio, il Partito comunista si appresta a sostenere il nuovo esecutivo. È quello che si definisce il “compromesso storico”. Una manovra politica delicata che ha un grande regista: il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro.

Le dichiarazioni programmatiche del nuovo governo Andreotti sono fissate alle 10 del 16 marzo. Dalle 8.45, gli uomini della scorta lo attendono fuori dalla propria abitazione. Il leader Dc è puntuale. Pochi minuti prima delle 9, è a bordo della Fiat 130 non blindata che lo deve condurre in Parlamento. Solitamente, Moro è aduso fare una sosta nella chiesa di Santa Chiara, per la sua preghiera del mattino.


Alle 9, la Fiat 130 si trova in via Mario Fani, quartiere Trionfale, insieme all’auto della scorta. All’incrocio con via Stresa, le due vetture vengono bloccate da una Fiat 128 che taglia la strada all’auto del presidente. Un commando di terroristi sbuca fuori dal bar “Olivetti” aprendo il fuoco e uccidendo i cinque uomini della scorta. In pochi istanti, Moro viene prelevato dall’abitacolo e portato via. Si compie in quel momento il sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, uno dei fatti destinati a segnare per sempre il futuro politico dell’Italia.

Alle 10.10, una telefonata anonima giunge al centralino Ansa di Roma e comunica che le Brigate Rosse rivendicano il rapimento di Moro e l’omicidio degli uomini della scorta. È un «attacco al cuore dello Stato». Moro viene trasportato in quella che i brigatisti definiscono “la prigione del popolo”.

Sono i 55 giorni più lunghi della storia repubblicana. Nove i comunicati rilasciati per spiegare le motivazioni del sequestro e tentare una trattativa con lo Stato. 86 le lettere che Moro invia tanto agli esponenti di partito quanto alla famiglia. Il Governo, tuttavia, chiude a qualsiasi possibile trattativa con i brigatisti. Moro scrive al suo partito: «Il mio sangue ricadrà su di voi». Con il nono e ultimo comunicato, le Brigate Rosse mettono fine al rapimento e uccidono Moro con una scarica di proiettili al petto: «Concludiamo la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato».

Il 9 maggio del 1978, in via Caetani a Roma, il cadavere di Moro viene fatto ritrovare all’interno del bagagliaio di una Renault 4 rossa. È la fine del cosiddetto “compromesso storico”, ossia di quell’avvicinamento tra Dc e Pci che Moro aveva propugnato insieme a Berlinguer.

I misteri del rapimento di via Fani: c’entra la ‘ndrangheta?

Ma furono solo le Brigate Rosse a partecipare all’azione terroristica del 16 marzo 1978 in via Fani a Roma? Oppure c’erano anche altri esponenti relativi alla criminalità organizzata ed alla ‘ndrangheta in particolare?

Sono tre le direttrici principali su cui si snoda la possibilità che effettivamente appartenenti alle consorterie ‘ndranghetistiche possano aver preso parte ad uno dei capitoli più bui della storia repubblicana: le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Saverio Morabito sulla presenza in via Fani di Antonio Nirta “due nasi”; le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Fiume che parla di mitragliette Skorpion in possesso della cosca De Stefano, che gli fu detto essere del tutto “simili” a quelle utilizzate per il rapimento Moro; le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Filippo Barreca, il quale afferma di aver appreso da Rocco Musolino che questi salvò un uomo della scorta di Moro, indicandogli di non andare al lavoro il giorno del sequestro.

Saverio Morabito e Antonio Nirta “due nasi”

È il 28 ottobre 1992. Saverio Morabito viene interrogato dai magistrati. È uno di quei collaboratori di giustizia che conosce molto più che l’aspetto puramente militare della ‘ndrangheta. Morabito è a conoscenza anche di quei segreti inconfessabili che riguardano i rapporti con la massoneria. Questi racconta di alcuni esponenti della famiglia Nirta di San Luca, facenti capo a Giuseppe e Francesco Nirta, e che annovera anche Antonio Nirta, detto “due nasi” per la sua predilezione verso la doppietta, arma che in Calabria viene chiamata proprio “due nasi”. D’un tratto Morabito afferma: «Potrà sembrare non credibile ma appresi da Papalia Domenico e da Sergi Paolo, come dirò, che il Nirta Antonio fu uno degli esecutori materiale del sequestro dell’onorevole Moro». Parole che pesano come macigni, poiché chiamerebbero in causa niente meno che un esponente di primissimo piano della ‘Ndrangheta. Sarebbe stato lui ad essere direttamente coinvolto nei fatti di via Fani. Ma non solo: stando a Morabito, Nirta sarebbe stato anche un confidente del generale dei carabinieri, Francesco Delfino. Tali dichiarazioni – va detto – non hanno mai trovato conferma né da Papalia né da Sergi, né hanno portato a sviluppi giudiziari di rilievo.

L’annuncio del presidente Fioroni

Ma il 13 luglio del 2016, a distanza di diversi anni da quelle dichiarazioni, l’allora presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, Giuseppe Fioroni, fa una dichiarazione importante: «Grazie alla collaborazione del Ris dell’Arma dei Carabinieri, possiamo affermare con ragionevole certezza che il 16 marzo del 1978 in via Fani c’era anche l’esponente della `ndrangheta Antonio Nirta, nato a San Luca, in provincia di Reggio Calabria, l’8 luglio del ’46».

Come si arriva alla «ragionevole certezza» circa la presenza di Nirta? Fioroni spiega: «Il comandante Luigi Ripani, che ringrazio per la collaborazione, ha inviato in questi giorni l’esito degli accertamenti svolti su una foto di quel giorno, ritrovata nell’archivio del quotidiano romano `Il Messaggero´, nella quale compariva, sul muretto di via Fani, una persona molto somigliante al boss Nirta. Comparando quella foto con una del boss, gli esperti sostengono che la statura, la comparazione dei piani dei volti e le caratteristiche singole del volto mostrano una analogia sufficiente per far dire, in termini tecnici, che c’è “assenza di elementi di netta dissomiglianza”». Che, però, non è una certezza circa la presenza di Nirta.

Chi sono Papalia e Sergi?

Un ulteriore aspetto da analizzare riguarda le persone da cui Morabito afferma di aver appreso le notizie su via Fani. Chi sono? Domenico Papalia e Paolo Sergi. Per capirne di più, occorre fare riferimento all’audizione dell’allora procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, dinanzi alla commissione parlamentare il 28 settembre 2017: «I fratelli Sergi, secondo quanto riferisce Antonino Cuzzola, sono coloro che anche da Cosa nostra in Lombardia assumono il controllo e la gestione del traffico internazionale di stupefacenti. In particolare, Antonino Cuzzola è l'esecutore materiale dell'omicidio di Umberto Mormile, omicidio deciso dai Papalia (Domenico e il fratello). Cuzzola riferisce quello che ha appreso quale elemento di fiducia dei Papalia e perché ha operato in Lombardia in quell'organizzazione. Egli ricorda che, su richiesta di Cosa nostra, dopo l'omicidio di Corollo, della gestione del traffico di stupefacenti si interessarono i fratelli Sergi, quindi parliamo di soggetti di altissimo rilievo. Chi sono i Papalia? Domenico Papalia viene coinvolto nell'omicidio di Antonio D'Agostino, che avviene nel 1976. Antonio D'Agostino è uno dei personaggi di vertice della ’ndrangheta e in Roma si incontra con altri elementi significativi. Domenico Papalia è quello che fa chiamare fuori Antonio D'Agostino; passano due uomini a bordo di una moto e viene eseguito l'omicidio. Domenico Papalia e – successivamente, per le indagini che vengono svolte – il fratello vengono entrambi coinvolti e condannati per quell'omicidio. Peraltro, un elemento importante è che nell'ambito dell'indagine svolta da Ferdinando Imposimato si portarono avanti anche elementi investigativi che riguardavano l'omicidio del giudice Occorsio, e si dice che alcuni elementi investigativi conducessero ad un filone investigativo non dico comune, ma comunque riconducibile alla ’ndrangheta, tanto che il giudice istruttore di Firenze che si occupò poi dell'omicidio del giudice Vittorio Occorsio ebbe a disporre una serie di perquisizioni che riguardarono anche i fratelli Paolo e Giorgio De Stefano, nonché Felice Genoese Zerbi, il famoso marchese, uomo della massoneria calabrese. La perquisizione venne eseguita perché si andò alla ricerca addirittura del mitra Ingram che era stato usato». Non sfugge come l’autore materiale dell’omicidio Occorsio, Pierluigi Concutelli, deceduto proprio ieri e per anni al vertice di Ordine Nuovo, ebbe certificati rapporti con la cosca De Stefano, condividendo persino un covo con Paolo De Stefano e Stefano Delle Chiaie, quando erano latitanti.

I nomi che fa Morabito, dunque, riportano ai Papalia e quindi anche a quella Falange Armata che fu la sigla con la quale vennero rivendicati numerosi atti terroristici degli anni ’90 (fra cui l’omicidio Mormile, per il quale furono condannati proprio i Papalia e Franco Coco Trovato). Per Cafiero, dunque, «quando parliamo dei Nirta, dei De Stefano, dei Piromalli, parliamo di famiglie che sono al vertice della ’ndrangheta della Calabria, ma soprattutto che c'è un passaggio dalla ’ndrangheta da “Sgarro” alla ’ndrangheta da “Santa”, passaggio che determina soprattutto un modo diverso di pensare; ossia la ’ndrangheta non è più solo crimine, ma deve entrare in rapporti con le istituzioni, con la massoneria e con tutti coloro che contano, perché non sono solo gli affari, ma è tutto il panorama delle istituzioni che è importante perché la ’ndrangheta possa avere un salto di qualità».

Ed è proprio la famiglia De Stefano quella che più interessa nel secondo filone da approfondire, quello relativo alle armi utilizzate per il sequestro di via Fani.

Le armi di via Fani, Cutolo e la cosca De Stefano 

Una delle piste più battute dalla commissione sul caso Moro è certamente quella relativa alle armi utilizzate nell’azione di via Fani. Secondo quanto riferito dal boss della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, che ha parlato dal carcere di Parma dove si trovava rinchiuso in regime di 41-bis, le armi utilizzate dal commando delle Brigate Rosse per rapire Moro ed uccidere gli uomini della scorta potrebbero provenire proprio da un arsenale della ‘Ndrangheta: «Quando ero nel carcere di Ascoli Piceno – spiega Cutolo al pm Donadio ed all’ufficiale dell’Arma, Boschieri – seppi che, in epoca immediatamente antecedente al sequestro Moro, ci furono ripetuti contatti di membri delle Br con ambienti ‘ndranghetistici al fine di acquisire armi in favore dei terroristi».

Cutolo non è uno qualunque e non solo per il suo ruolo di fondatore della NCO. Cutolo è uno di quelli che la ‘Ndrangheta la conosce molto bene. Tanto da essere stato battezzato quale ‘ndranghetista negli anni ’70, dove inizia a stringere una forte amicizia con la cosca De Stefano. Rapporto che giunge al suo compimento quando, proprio su richiesta della famiglia mafiosa di Archi, Cutolo fa uccidere il boss ‘ndranghetista Mico Tripodo, colui che poteva frenare in qualche modo l’ascesa al potere del nuovo gruppo criminale composto dalle famiglie De Stefano e Piromalli.

E non è forse un caso se la traccia delle armi usate in via Fani arriva da Roma fino a Reggio Calabria e, nello specifico, alla cosca De Stefano. Quella con cui Cutolo aveva i maggiori rapporti. Le mitragliette Skorpion che hanno sparato in via Fani, infatti, potrebbero essere proprio quelle facenti parte di un arsenale appartenente alla cosca De Stefano.

Fiume, il collaboratore custode dei segreti della cosca

A rivelarlo agli inquirenti è Antonino Fiume, storico collaboratore di giustizia. Il primo intraneo alla cosca De Stefano e che ha avuto accesso ai segreti più importanti del casato mafioso di Archi. Non è un caso che tutti, all’interno della consorteria, entrano in forte fibrillazione nel momento in cui Fiume decide di collaborare con la giustizia. È stato per anni il fidanzato di Giorgia De Stefano, figlia di Paolo e sorella di Giuseppe. Ed è proprio con quest’ultimo che Fiume stringe i rapporti più solidi.

Le mitragliette Skorpion da custodire con cura 

È il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, a sentire Fiume su questi temi. Per la verità, Fiume collabora dal 2002. Ma quella prima fase non viene utilizzata per esplorare le sue conoscenza anche in merito a ciò che lui aveva appreso oltre i fatti più evidenti. Alla commissione, Lombardo riferisce circostanze molto chiare. Mentre sente Fiume, parlano di armi e lì «l’atteggiamento di Fiume cambia: è come se su quell'argomento provasse una sorta di imbarazzo. Invitato a riferire perché su quelle armi sembri imbarazzato, mi dice: “Perché, dottore, non so se questa è una cosa di cui io posso parlare, perché non ne ho mai parlato, proprio perché è una cosa che mi intimorisce. Le devo dire che queste armi in particolare mi furono raccomandate da Orazio De Stefano, che all'epoca era latitante (all'epoca intendo febbraio 2002) e che era il vertice della famiglia De Stefano accanto al nipote Giuseppe De Stefano, il quale mi disse più volte: “Nino, guarda, tutte le armi nostre le devi custodire con particolare cura, ma stai attento ai due fucili mitragliatori tipo Skorpion perché sono simili a quelle usate per l'omicidio Moro”. Dice “simili”. (…) è un atteggiamento prudenziale di un collaboratore che normalmente non parla a vanvera. Lo invito ovviamente ad aggiungere dei particolari, ma non ha particolari specifici sulle armi. Dice però che erano delle armi su cui c'era un'attenzione molto alta, che erano nascoste in una particolare situazione e condizione, con misure particolarmente elevate di protezione».

Fiume, del resto, è uno che con le armi ci sa fare. È nella sua officina che le armi della cosca vengono modificate e, da armi giocattolo, diventano micidiali. Si costruiscono silenziatori artigianali e si assemblano arsenali.

Il bar Olivetti e le armi giocattolo modificate

Potrebbe non essere un caso che, tra le indagini effettuate su via Fani, vi siano anche quelle relative al bar Olivetti, luogo da cui sbuca il commando delle Br. Come accertato dalle inchieste, quel locale tempo prima di chiudere definitivamente, era frequentato tanto da personaggi vicini alla ‘Ndrangheta che ad esponenti della banda della Magliana. Il titolare di quel bar, Tullio Olivetti, fu coinvolto in una inchiesta riguardante un traffico di armi. Si diede anche alla latitanza ma poi, causa la ritrattazione del testimone principale (nonché imputato), tutto si sgonfiò anche per via di una perizia. Più tardi si è pero scoperto che quella ritrattazione arrivò dopo pressioni giunte da uomini legati al clan De Stefano. Secondo i tecnici che fecero quella perizia, il testimone era un mitomane poiché quelle armi erano solo pistole giocattolo. Le inchieste su cui indagavano gli uomini dell’Arma, però, concernevano proprio delle armi giocattolo trasformate in reali. I traffici sarebbero stati trattati con Giorgio De Stefano. Ed in quel contesto fu delineato anche un ruolo per Olivetti che, si ribadisce, non portò a nulla.

La confidenza del boss che salvò la vita ad uno della scorta

Tra i pentiti che parlano del sequestro Moro va annoverato anche Filippo Barreca, conosciuto nei primi anni della sua collaborazione come “pentito Beta”. «Rocco Musolino mi disse – spiega Barreca – che aveva salvato un compaesano a lui legato che era il personaggio chiave della scorta di Aldo Moro, facendogli sapere che quel giorno egli non doveva andare a lavorare. Fu proprio quello il giorno dell’eccidio». Le dichiarazioni sono messe nero su bianco in un verbale dell’8 settembre 2016 e l’uomo scampato all’agguato di via Fani è il vicebrigadiere Rocco Gentiluomo, originario di Sant’Eufemia d’Aspromonte, luogo dal quale proveniva anche Rocco Musolino, da sempre ritenuto dagli inquirenti un boss di primo livello, ma deceduto senza mai riportare una condanna passata in giudicato per fatti di mafia, se non una misura di prevenzione.

Gentiluomo è il capo-scorta di Aldo Moro. E le dichiarazioni che lo riguardano sono state riferite al magistrato Guido Salvini ed al tenente Massimo Giraudo. Tuttavia sono quasi inesistenti i riferimenti nelle relazioni delle commissioni d’inchiesta che si sono occupate del sequestro e dell’uccisione di Moro. Solo il presidente Fioroni ne fa un cenno veloce nell’audizione del procuratore Lombardo nel 2017. Della vicenda dà conto un articolo pubblicato dal Fatto quotidiano nell’agosto 2020. Così come lo stesso articolo riporta un altro dato interessante.

Il documento Comsubin e lo stato d’allerta prima del rapimento

Si tratta, scrive la giornalista Simona Zecchi, si un documento che riferisce dell’operazione dei Comsubin (gli incursori della Marina) pronti ad intervenire “durante la crisi Moro”. A rivelare il ruolo dell’unità speciale è Cossiga nel 1991. Il documento è il nr. 13/255/5 del 5 ottobre 1991. La cronologia dei giorni parte però dal 15 marzo, come giorno di rapimento di Moro e l’8 maggio come quello del ritrovamento del corpo. Nei due giorni indicati si parla di “stato di allerta” autonomo e di “prosieguo del corso fino al suo completamento” nel giorno del “rinvenimento del cadavere di Moro”. Insomma, mentre al vicebrigadiere Gentiluomo viene indicato di non recarsi al lavoro, i Comsubin si preparano ad uno stato di allerta autonomo per intervenire sul caso Moro. Un caso che, però, al 15 marzo 1978, deve ancora iniziare.

A distanza di 45 anni da quella mattina in cui doveva compiersi il “compromesso storico”, il caso Moro rimane una delle pagine più buie e cariche di misteri dell’Italia del dopoguerra. Buchi neri le cui coordinate passano, ancora una volta, da Reggio e dalla Calabria. Con verità che, forse, non potranno mai essere scritte.

Giornalista
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