La testimonianza

Lamezia, la madre ricoverata in ospedale per tre giorni ma può vederla «solo per l’ultimo bacio»

L’esperienza dei parenti di un’anziana paziente affidata a una lettera diffusa dal Tribunale per i diritti del malato: «Spero che non accada più a nessuno, siamo andati via con il cuore spezzato»

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di Alessia Truzzolillo
11 marzo 2024
17:09

Una nuova testimonianza sulle difficoltà che incontrano i parenti dei pazienti a stare accanto ai propri cari ricoverati nel reparto di Medicina dell’ospedale Giovanni Paolo II di Lamezia Terme arriva da una lettera che la signora F.C., di Filadelfia, ha inviato al Tribunale per i diritti del malato, costola della rete di Cittadinanzattiva.
I fatti raccontati risalgono allo scorso mese di gennaio. Il racconto mette in risalto il trattamento che la signora si è vista riservare dal personale medico del reparto di Medicina. In tre giorni di ricovero è riuscita a vedere sua madre per pochi minuti solo una volta per darle «l’ultimo bacio». «Tutto questo voglio segnalare – spiega la signora – perché non accada mai più a nessuno che non possa vedere un proprio congiunto, per giunta fragile, durante una degenza ospedaliera». Questo è il punto di vista di una figlia. Come avrà vissuto i suoi ultimi momenti l’anziana madre, purtroppo, non è dato sapere.
«Sono trascorsi diversi giorni dall'invio, da parte di questo Tribunale per i diritti del malato – scrive il responsabile Fiore Isabella –, dell’allegata segnalazione, all’Ufficio relazioni con il pubblico con specifica richiesta di attenzionamento da parte dei responsabili del reparto chiamato in causa. In assenza di riscontro alle criticità segnalate dalla signora F.C, ci pare doveroso e pedagogicamente necessario rendere pubblica la lettera che evidenzia un rapporto della struttura con l'utenza, nel caso di specie con  il reparto di Medicina del "Giovanni Paolo II, particolarmente critico. Siamo convinti, ed è per tale ragione che riteniamo utile sollecitare una riflessione generale sul tema della pedagogia  della comunicazione, che debbano prevalere, soprattutto nei luoghi della sofferenza, rapporti miti ed ecologicamente sostenibili».

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Non fanno entrare in reparto e «qualcuno chiama i carabinieri»

«Io sottoscritta F. C., figlia della signora B. C., – inizia la lettera – deceduta presso l’Ospedale civile di Lamezia il 14 gennaio, con la presente intendo segnalare quanto segue. La mia mamma è stata portata da Filadelfia, dove abitava, in ambulanza presso il suddetto Ospedale la sera di giovedì 11 gennaio intorno alle 20 perché aveva difficoltà ad urinare. Dopo gli accertamenti, intorno alle ore 2,00, veniva ricoverata nel reparto Cardiologia, solo fino al mattino seguente, quando poi è stata trasferita al reparto di Medicina. Da subito ci dicono che non sarebbe stato possibile farle visita, perché all’interno del reparto medicina c’era il Covid; tale situazione veniva anche segnalata con apposito avviso all’esterno del reparto stesso. Il giorno seguente, con i miei fratelli, ci rechiamo presso il suddetto ospedale nella speranza di poter far visita alla nostra cara mamma ed avere notizie dai medici circa le sue condizioni».
La signora non è la sola a elemosinare una visita: «Altri familiari di pazienti sono lì in attesa, le proteste non valgono a nulla. Qualcuno chiama i carabinieri che subito arrivano in reparto e poi quelle persone possono entrare a far visita al loro congiunto».


Ci dicono che è grave ma non ce la fanno vedere: «Andiamo via con il cuore spezzato»

«Intorno alle 13,30 ci chiamano – prosegue la lettera –, una dottoressa riceve me e mio fratello in una sala d’attesa e ci comunica che la nostra mamma è in condizioni molto gravi. Alla nostra richiesta di poterla vedere, ci risponde categoricamente di no. A nulla valgono le nostre accorate richieste. Andiamo via con il cuore spezzato».
La signora F.C. racconta anche di un dialogo molto acceso che ha avuto con una dottoressa che le comunicava di non «aspettarsi miracoli» sulle sorti della madre. «La dottoressa – racconta – mi risponde che la mia mamma ha 95 anni e non possiamo aspettarci che la vita sia eterna. Io insisto perché si faccia di tutto per curarla e riprenderla e lei mi risponde che vivo nelle nuvole. Dopo altre mie insistenze, mi dice che faranno di tutto, ma non dobbiamo aspettarci nulla». Quello che la signora intende sottolineare è la scarsa empatia riscontrata rispetto a una figlia addolorata nell’apprendere delle condizioni della madre. Ancor di più perché, nonostante la gravità, non può vederla. «Chiedo di vederla e mi risponde di no. Chiedo di sapere se la mia mamma può avere bisogno di qualcosa a livello personale e mi dice di attendere che mi manda l’infermiera».

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«Un colloquio che non dimenticherò mai»

«Qui – scrive F.C. – voglio fare una pausa: non dimenticherò mai quel colloquio… In pratica un medico sta dicendo ad una figlia che la madre sta per morire e non dimostra nessuna attenzione ai sentimenti di chi ha di fronte. Io aspetto fuori. Finalmente viene un’infermiera e mi dice che posso entrare, ma solo per pochi istanti, per vedere la mia mamma, probabilmente a seguito delle mie insistenze. Entro in camera, la mia mamma è lucida e felice di vedermi. Noto che, nonostante il giorno prima avessimo portato la biancheria per il cambio, ha ancora il pigiama della sera del ricovero. Dopo pochi minuti viene l’infermiera per dirmi che devo andare via. La mia mamma, raccoglie tutte le forze e si ribella: «Questa è mia figlia, è Franca mia, perché la mandate via?» Sono costretta ad andare via dopo aver dato alla mia mamma quello che è stato l’ultimo bacio».

«Il prete era passato ma non gli hanno aperto»

«L’indomani mattina – prosegue il racconto – ci chiamano dall’ospedale per dirci che la mia mamma si è aggrava ulteriormente, che ha poche ore di vita se vogliamo andare a vederla. Intorno alle 14 la mia cara mamma ci lascia. Voglio anche segnalare un’altra cosa, a mio avviso, grave mancanza. Intorno alle 13 di domenica 14, mentre siamo in attesa di entrare in reparto per vedere la nostra mamma, essendo credenti, andiamo in Cappella a cercare il sacerdote per una preghiera. La cappella è chiusa. Riesco, tramite amici, ad avere il numero di cellulare del cappellano e lo chiamo chiedendogli di venire perché c’è la mia mamma gravissima. Mi dice che è impegnato e che appena si libera viene. Non l’abbiamo mai visto. Intorno alle 17, quando la salma della mia mamma era già a Filadelfia, mi manda un messaggio per dirmi che era venuto ma non gli hanno aperto ed ha anche i testimoni. No comment. Tutto questo voglio segnalare perché non accada mai più a nessuno che non possa vedere un proprio congiunto, per giunta fragile, durante una degenza ospedaliera».

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