Sanità

Un’Italia a “due cure”: Calabria maglia nera per mortalità infantile, prevenzione e fuga di pazienti al Nord

Presentato a Roma il report redatto da Svimez con Save the children: in evidenza i divari tra un capo e l'altro del Paese, con diversi primati negativi per la nostra regione che non riesce a raggiungere il livello minimo richiesto per i Lea. Un quadro a tinte fosche su cui si stende adesso l'ombra dell'autonomia differenziata 

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di Mariassunta Veneziano
7 febbraio 2024
12:24

Un Paese a due velocità. Anzi, due cure. Si intitola proprio così il rapporto Svimez presentato oggi a Roma: “Un Paese, due cure. I divari Nord-Sud nel diritto alla salute”. Lo studio, realizzato in collaborazione con Save the children, accende un faro sul gap sanitario tra un capo e l’altro d’Italia. Una nazione divisa in due nel campo della prevenzione e dell’assistenza, con la Calabria che emerge per un altro tristissimo primato: quello della mortalità infantile.

Secondo gli ultimi dati forniti dall’Istat, infatti, il tasso di decessi entro il primo anno di vita è di 1,8 ogni mille nati vivi in Toscana ma è quasi il doppio in Sicilia (3,3) e più che doppio nella nostra regione: 3,9.


Un divario, quello tra Nord e Sud, che condanna una parte della popolazione italiana a inseguire, letteralmente, il proprio diritto alla salute fin dalla nascita. «Sebbene nel panorama mondiale il Servizio sanitario nazionale si posizioni come una eccellenza per la cura dei bambini, sia dal punto di vista delle professionalità che della universalità di accesso alle cure, le disuguaglianze territoriali sono molto accentuate», si sottolinea. Il report evidenzia il dato relativo ai consultori familiari, la cui presenza sul territorio è andata assottigliandosi già prima della pandemia.

Una situazione critica sulla quale si stende come un’ombra minacciosa l’autonomia differenziata che, secondo le considerazioni emerse dal report, rischiano di ampliare il distacco tra una parte e l’altra d’Italia. «Al Sud i servizi di prevenzione e cura sono più carenti, minore la spesa pubblica sanitaria, più lunghe le distanze da percorrere per ricevere assistenza, soprattutto per le patologie più gravi. Aumentare la spesa sanitaria è la priorità nazionale», si legge. E ancora: «Andrebbe inoltre corretto il metodo di riparto regionale del Fondo sanitario nazionale per tenere conto dei maggiori bisogni di cura nei territori a più elevato disagio socio-economico».

Nel corso della presentazione dell’indagine curata da Luca Bianchi, Serenella Caravella e Carmelo Petraglia, è stato proiettato un video con le storie di due donne, una calabrese e una emiliana, che affrontano la stessa patologia oncologica. Stessa patologia ma percorsi di cura necessariamente differenti. Entrambi in salita, ma uno ulteriormente irto di ostacoli per l’impossibilità di affrontare la malattia a casa propria. La salvezza cercata a centinaia di chilometri di distanza. Storie immaginate, ma non del tutto frutto della fantasia. Perché nel racconto inventato si riflette la realtà di un Paese in cui il diritto alla salute non è ugualmente accessibile a tutti.

Spesa sanitaria sotto la media e Lea non raggiunti

Un contesto sottodimensionato quello italiano, in termini di investimenti pubblici, rispetto al contesto europeo: una media del 6,6% del Pil contro il 9,4% di Germania e l’8,9% di Francia, mentre il contributo privato è di quasi il doppio, il 24%. E il livello scende ulteriormente viaggiando verso il Sud del Paese. Se infatti la spesa sanitaria per abitante ha una media nazionale di 2.140 euro, il livello più basso, pari a 1.748 euro, si registra in Calabria e sale leggermente nelle altre regioni meridionali: Campania (1.818 euro), Basilicata (1.941 euro) e Puglia (1.978 euro). Livelli bassi anche per la parte di spesa in conto capitale, con la Campania a 18 euro, il Lazio a 24 euro e la Calabria a 27 euro, a fronte di una media nazionale di 41 euro.

E poi c’è il dato dei Lea, i Livelli essenziali di assistenza, con la Calabria bollata come inadempiente in tutti e tre gli ambiti di assistenza, dove presenta punteggi inferiori al minimo di 60 (su una scala da 0 a 100): 52,96 prevenzione, 48,51 distrettuale, 58,52 ospedaliera.

Anche secondo il Rapporto 2023 del Crea Sanità (Centro per la ricerca economica applicata), riporta lo studio di Svimez, «le performance sono molto eterogenee tra Ssr, e particolarmente insoddisfacenti per il Sud. L’indice composito del Crea, che si basa su indicatori di appropriatezza, efficienza nella spesa, equità e outcome, varia da un massimo di 59 (fatto 100 il risultato massimo raggiungibile) a un minimo di 30: il risultato migliore lo ottiene il Veneto e il peggiore la Calabria».

Più povertà sanitaria, meno speranza di vita

Sempre in base alle recenti valutazioni del Crea sono il 6,1% le famiglie italiane in povertà sanitaria, ossia quelle che hanno difficoltà ad accedere all’assistenza o che addirittura vi hanno rinunciato. Nel Mezzogiorno la quota la povertà sanitaria riguarda l’8% dei nuclei familiari, una percentuale doppia rispetto al 4% del Nord-Est (5,9% al Nord-Ovest, 5% al Centro).

Una povertà che si riflette nella speranza di vita: nel 2022 per i cittadini meridionali era di 81,7 anni (79,5 per gli uomini e 83,9 per le donne), circa 1,3 anni in meno rispetto al Centro e Nord-Ovest.

A dare un funesto contributo la «mortalità evitabile», i decessi dovuti ai deficit nella prevenzione e nell’assistenza. Al Sud il tasso di mortalità per tumore è pari al 9,6 per 10mila abitanti per gli uomini rispetto a circa l’8 del Nord. Per le donne è di 8,2 al Sud contro meno del 7 al Nord.

Su base regionale, quattro regioni del Centro-Sud presentano i valori più elevati per mortalità evitabile delle donne: Campania (14,7), Sicilia (13,4), Lazio (12,6) e Calabria (12,2). Per gli uomini, le prime tre regioni sono tutte del Mezzogiorno: Campania (26,2), Sardegna (25,3), Calabria (24,9).

Le carenze nella prevenzione oncologica

Nel biennio 2021-2022 in Italia circa il 70% delle donne di 50-69 anni si è sottoposta ai controlli: circa due su tre lo ha fatto aderendo ai programmi di screening gratuiti. Il dato è rilevato dall’Istituto superiore di sanità e, come tutti gli altri, presenta delle evidenti flessioni nel confronto tra una parte e l’altra d’Italia: se la copertura complessiva è infatti dell’80% al Nord e del 76% al Centro, scende al 58% nel Mezzogiorno. Con un altro primato negativo per la Calabria, ultima a livello nazionale con il 42,5% delle donne di 50-69 anni che si è sottoposto ai controlli. Per avere un metro di paragone, la prima regione per copertura è il Friuli-Venezia Giulia con l’87,8%.

Un dato messo in evidenza, in un’intervista a LaC News24, dal primario di Oncologia dell’ospedale De Lellis di Catanzaro Vito Barbieri dopo le affermazioni del presidente dell'Istituto Superiore di Sanità Rocco Bellantone, che in occasione della Giornata mondiale contro il cancro aveva parlato proprio della netta differenza in termini di sopravvivenza ai tumori tra pazienti del Nord e del Sud.

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«Il paziente calabrese ha tumori che vengono diagnosticati in fase avanzata – ha spiegato il medico – perché in Calabria sono quasi assenti gli screening. Le percentuali di pazienti che accedono ad uno screening per tumore alla mammella, alla cervice uterina, al colon è così bassa rispetto alle altre regioni che le diagnosi precoci che consentono di rimuovere un tumore in fase iniziale non è la regola. In Calabria il paziente ottiene una diagnosi di tumore quando ha sintomi rilevanti, una patologia in fase avanzata e spesso non si può nemmeno operare».

A proposito di questo, evidenziano i curatori del report Svimez: «I dati relativi agli screening organizzati dai Ssr confermano i profondi divari regionali nell’offerta di servizi che dovrebbero essere garantiti in maniera uniforme in quanto compresi tra i Lea. La quota di donne che ha avuto accesso a screening organizzati oscilla tra valori compresi tra il 63 e il 76% in Veneto, Toscana, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, P.A. di Trento, Umbria e Liguria e circa il 31% in Abruzzo e Molise. Le quote più basse si registrano in Campania (20,4%) e in Calabria, dove le donne che hanno effettuato screening promossi dal Servizio Sanitario sono appena l’11,8%, il dato più basso in Italia».

Pazienti in fuga verso il Nord

E poi c’è l’altro aspetto, quello della cura spesso cercata lontano da casa. Nel 2022, dei 629mila migranti sanitari (volume di ricoveri), il 44% era residente in una regione del Mezzogiorno. Per le patologie oncologiche, 12.401 pazienti meridionali, pari al 22% del totale, si sono spostati per ricevere assistenza in un ospedale del Centro o del Nord. E ancora una volta la maglia nera va alla Calabria, che registra l’incidenza più elevata di “fughe”: il 43% dei pazienti si rivolge a strutture sanitarie di regioni non confinanti. Seguono Basilicata (25%) e Sicilia (16,5%).

Situazione simile riguarda i bambini. Save the Children parla di numeri crescenti anche nelle migrazioni sanitarie pediatriche da Sud verso il Centro-Nord: i piccoli pazienti che vanno a farsi curare in una regione diversa da quella di residenza nel 2020 si attesta in media all’8,7% a livello nazionale, con differenze territoriali che vanno dal 3,4% del Lazio al 43,4% del Molise, il 30,8% della Basilicata, il 26,8% dell’Umbria e il 23,6% della Calabria.

In particolare, un terzo dei bambini e degli adolescenti si mette in viaggio per ricevere cure per disturbi mentali o neurologici, della nutrizione o del metabolismo nei centri specialistici convergendo principalmente a Roma, Genova e Firenze, sedi di Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) pediatrici.

L'ombra dell'autonomia differenziata

Stesso Paese, stessi diritti? Niente da fare. E se l’equità dovrebbe rappresentare l’obiettivo, questo appare adesso ulteriormente messo a rischio dal ddl sull’autonomia differenziata. «Sulla base delle risultanze del Comitato per l’individuazione dei Livelli essenziali delle prestazioni, in particolare, tutte le Regioni a statuto ordinario potrebbero richiedere il trasferimento di funzioni, risorse umane, finanziarie e strumentali ulteriori rispetto ai Lea in un lungo elenco di ambiti», si legge nel report. E il divario potrebbe allargarsi: «La concessione di ulteriori forme di autonomia potrebbe determinare ulteriori capacità di spesa nelle Regioni ad autonomia rafforzata, finanziate dalle compartecipazioni legate al trasferimento di funzioni e, soprattutto, dall’eventuale extra-gettito derivante dalla maggiore crescita economica. Tutto ciò, in un contesto in cui i Lea non hanno copertura finanziaria integrale a livello nazionale e cinque delle otto Regioni del Mezzogiorno risultano inadempienti, determinerebbe una ulteriore differenziazione territoriale delle politiche pubbliche in ambito sanitario. Con l’autonomia differenziata si rischierebbe dunque di aumentare la sperequazione finanziaria tra Ssr e di ampliare le disuguaglianze interregionali nelle condizioni di accesso al diritto alla salute».

Non ha dubbi il direttore generale della Svimez Luca Bianchi: «Rafforzare la dimensione universale del Sistema sanitario nazionale è la strada per rendere effettivo il diritto costituzionale alla salute. Una direzione opposta a quella che invece si propone con l’autonomia differenziata dalla quale deriverebbero ulteriori ampliamenti dei divari territoriali di salute e una conseguente crescita della mobilità di cura». 

Sulla stessa linea il presidente della fondazione Gimbe Nino Cartabellotta: «Il nostro Ssn è ormai profondamente indebolito e segnato da inaccettabili diseguaglianze regionali. E con l’attuazione delle maggiori autonomie in sanità si legittimerà normativamente la “frattura strutturale” Nord-Sud: il meridione sarà sempre più dipendente dalla sanità del Nord, minando l’uguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto costituzionale alla tutela della salute. Uno scenario già evidente: su 14 Regioni adempienti ai Livelli essenziali di assistenza solo 3 sono del Sud (Abruzzo, Puglia e Basilicata) e tutte a fondo classifica mentre la fuga per curarsi verso il Nord vale 4,25 miliardi di euro».

«La condizione di povertà familiare incide fortemente sui percorsi di prevenzione e sull’accesso alle cure da parte dei bambini. Occorre conoscere e superare i divari territoriali che oggi condizionano l’accesso ad un servizio sanitario che rischia di essere “nazionale” solo sulla carta. È un investimento da mettere al centro dell’agenda della politica», ha dichiarato Raffaela Milano, responsabile dei Programmi Italia - Europa di Save the Children.

Dito puntato contro il divario anche da parte di Anna Lisa Mandorino, segretaria generale di Cittadinanzattiva: «Dal nostro osservatorio, ed è un ulteriore elemento di preoccupazione, emerge una frammentazione che si aggiunge alle disuguaglianze Sud-Nord poiché riguarda questioni diffuse come la desertificazione dei professionisti e dei servizi. In questo quadro la riforma della autonomia differenziata, sulla quale si continua a ragionare – e per giunta con scarsissimo coinvolgimento dei cittadini - senza la definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni, dà come unica certezza quella di amplificare questa frammentazione e di consegnarci un Paese ulteriormente diviso nella garanzia del diritto alla salute». 

 

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