La Via Crucis della Calabria

In Calabria vietato ammalarsi: viaggio nelle 5 province tra ospedali che mancano e sanità territoriale inesistente

Da Vibo Valentia a Reggio, da Catanzaro a Cosenza fino a Crotone: non c’è angolo della regione che non sconti la mancanza cronica di un’assistenza sanitaria efficiente. In trincea pochi medici e operatori demotivati (ASCOLTA L'AUDIO)

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di Redazione
5 aprile 2023
16:04

La Sanità in Calabria è la summa di tutti i problemi, l’archetipo di un traguardo tanto ambito quanto irraggiungibile, nonostante i commissariamenti e le leggi speciali. Ci sono ospedali in Calabria che attendono di essere costruiti da oltre 20 anni, come quello di Vibo, di cui si parla e si riparla a ogni elezione, salvo poi dover fare i conti con la realtà dei fatti che restituisce solo promesse sgualcite e usurate.
In questo viaggio, provincia per provincia, non c’è certo l’ambizione di essere esaustivi, perché sono infiniti gli argomenti che dovrebbero essere affrontati per rendere pienamente l’idea di quanto sia complesso e sentito il problema sanità. Ma partendo da storie emblematiche, alcune apparentemente marginali rispetto all’enormità della questione, abbiamo voluto richiamare l’attenzione sui disagi ormai cronici che i calabresi continuano a subire.

Il nuovo ospedale di Vibo è "vecchio" di 20 anni ma ancora non c’è

di Cristina Iannuzzi
«Ci fosse stato il nuovo ospedale, Federica non sarebbe morta», disse il pubblico ministero nel richiedere la condanna degli imputati. Federica Montelone aveva 16 anni quando spirò nella Rianimazione dell’Annunziata di Cosenza: era il 26 gennaio del 2007. Il suo calvario ebbe però inizio sette giorni prima, durante un intervento di appendicectomia nella sala operatoria dell’ospedale Jazzolino di Vibo Valentia. Un intervento di routine, quasi «banale» per mani esperte. Poi un black out in sala operatoria: l’autopsia, le perizie, il processo, nulla chiarì oltre ogni ragionevole dubbio ciò che provocò la morte di quella studentessa vibonese con la passione della danza poi assurta a simbolo delle vittime di malasanità.


Al termine del processo, oltre alla responsabilità penale degli imputati, si raggiunse un’altra certezza: quella sala operatoria neppure collaudata, era «mortalmente insicura». Doveva essere operata nel nuovo ospedale di Vibo Valentia, Federica Monteleone, così come Eva Ruscio, sedici anni anche lei, deceduta durante una tragica tracheotomia dovuta ad un ascesso peritonsillare, nel dicembre dello stesso anno.

Del nuovo ospedale di Vibo Valentia, la cui gestazione era iniziata dieci anni prima, allora però c’era solo una prima pietra in un’area di cantiere posta sotto sequestro dall’autorità giudiziaria, che indagava su una torbida vicenda di tangenti, malapolitica, massoneria deviata. E quella prima pietra, prescritte le imputazioni, revocati e riappaltati i lavori, rielaborato il progetto originario e venuti alla luce i gravi rischi idrogeologici incombenti sull’area individuata per l’edificazione del presidio, sarebbe rimasta sola a lungo.

Diciotto anni dopo i sigilli, sedici anni dopo la morte di Federica ed Eva, vissuti altri scandali giudiziari, del nuovo ospedale di Vibo Valentia esiste solo il cantiere. Così l’avamposto sanitario per la tutela del diritto alla salute resta oggi il vecchio e fatiscente Jazzolino, sempre più spoglio di medici, di reparti. Un presidio che, nonostante la strenua resistenza dei suoi medici, a causa della carenza di anestesisti è stato più volte costretto a rallentare le attività operatorie, assicurando in alcuni periodi solo le urgenze.

Pochi medici, talvolta costretti a turni massacranti, spesso oggettivamente impossibilitati a dare riscontro alle esigenze dell’utenza, talvolta vittime di minacce ed aggressioni: dal Pronto soccorso alle Malattie infettive, nessuno escluso. E sul territorio, da Tropea a Serra San Bruno, passando per Soriano, giganti di cemento armato vengono limitati alle attività ambulatoriali e day hospital. Per lunghi periodi, un solo anestesista, di fatto reperibile h24. Locali tutto sommato funzionali, ma inattivi.

Serra San Bruno, ad esempio, sale operatorie perfettamente attrezzate, inaugurate nel 2008, costate 850.000 euro – denuncia il sindaco Alfredo Barillari – ma mai entrate in funzione. Eppure del nosocomio, progressivamente ridimensionato, oggi si teme addirittura la chiusura. Tropea, un presidio potenzialmente all’altezza, ma non adeguato alle esigenze di un’area territoriale che ogni estate sfora il tetto del milione di turisti. Vietato ammalarsi, dunque, nel Vibonese. Pazienti che spesso non sanno a che santo votarsi, medici che divengono loro malgrado al tempo stesso vittime e capri espiatori di un collasso, sanitario ed economico che dovrebbe essere risolto da chi l’ha creato: la politica.

Nel Cosentino chiusi 9 ospedali su 18

di Mariassunta Veneziano
Lo sfascio della sanità pubblica lo raccontano splendidamente Federico Greco e Mirko Melchiorre in “C’era una volta in Italia – Giacarta sta arrivando”, il film che dai primi di dicembre prosegue ininterrotto il suo tour in tutta Italia e non solo. C’è quella frase, pronunciata da Cataldo Perri, che in poche parole racconta molto di quanto è successo negli ultimi anni: «Quando vado a Milano per curarmi, nei corridoi sento parlare meridionale e mi incazzo». Racconta dei viaggi che chi ha la sventura di ammalarsi in Calabria è costretto ad affrontare per restare al mondo, e della rabbia di chi vede, sente e vive tutto questo. Una rabbia che non sempre – e per fortuna – resta chiusa nei pugni stretti.

In provincia di Cosenza di ospedali ne hanno chiusi 9, la metà di tutti quelli finiti sotto la scure del provvedimento del 22 ottobre 2010 firmato Scopelliti. Quel giorno, il 18 per la sanità pubblica calabrese è diventato numero sfortunato: decreto 18, 18 strutture riconvertite. Che, da quel momento, hanno incominciato a subire le conseguenze del soffocamento.

San Marco Argentano, Rogliano, San Giovanni in Fiore, Acri, Mormanno, Trebisacce, Cariati, Praia a Mare, Lungro. Sparsi su tutto il territorio, dal Pollino al Savuto, dal Tirreno allo Ionio, sguarnendo anche del diritto alla salute luoghi già sguarniti di tutta una serie di servizi. 

A cominciare dalle strade, impercorribili alla velocità dell’emergenza. Con l’unico pronto soccorso vicino che vicino non è e in cui carenza di personale e bacino di utenza creano un mix letale. Ne sanno qualcosa nei paesini dell’entroterra, ma anche lungo le coste attraversate da arterie statali che lo Stato ha dimenticato per anni. Dove i viaggi delle ambulanze sono come quello mostrato nel film di Greco e Melchiorre, le ruote a macinare polvere come carrozze nel vecchio west.

 “C’era una volta in Italia”, appunto, la sanità. Smontata pezzo dopo pezzo, in un silenzio generale rotto qua e là solo dalla voce dei comitati cittadini sorti per difendere il diritto alla salute e da sentenze del Consiglio di Stato che hanno apposto il marchio dell’ingiustizia alle improvvide riconversioni. A Trebisacce e Praia non hanno mai mollato la presa. A Cariati hanno fatto di più: hanno occupato un’ala dell’ospedale. Un atto di ribellione che si è a buon diritto guadagnato il posto da protagonista nella pellicola che racconta la loro e la nostra storia. La storia di Cataldo Perri, nato in un paese in cui è diventato vietato ammalarsi, e di quanti nati nello stesso paese non si sono ammalati di rassegnazione. Una storia di «lotta, rabbia e amore» l’ha definita Mimmo Formaro, portavoce dei ribelli cariatesi. Che hanno acceso dapprima i riflettori su questo ritaglio di sanità negata e poi la luce della speranza. Nella rinascita, alla fine della via crucis.

La Calabria (e la Piana) non è un paese per bimbi autistici

di Agostino Pantano
Incontriamo Rosanna Melara il 3 aprile, nelle stesse ore in cui per lei e il figlio autistico inizia un altro calvario. «Devo scappare a organizzare la giornata di Gabriele – ci spiega davanti al municipio di Palmi, la sua città – oggi per lui sarà il primo giorno senza assistenza domiciliare». Per lei, una disoccupata di 42 anni, né l’orologio e né la rabbia si fermano in questo lunedì che precede la Pasqua. Deve correre a prendere il figlio alla scuola Primaria e poi iniziare a fare quel salto nel vuoto a cui la burocrazia la costringe.

«Gli operatori – aggiunge – venivano due pomeriggi a settimana per le attività psicomotorie che impegnavano il bambino, ne calmavano l’aggressività e facevano sentire me meno sola nell’accudimento». Gli esperti che Rosanna dice di non finire mai di ringraziare, 13 tra psicologi, logopedisti e tecnici della psicomotricità, sono quelli arruolati – 3 anni fa – dal cosiddetto Ambito sociale territoriale, una delle strutture amministrative comprensoriali in cui è divisa la Piana reggina. Sette comuni, con capofila Rosarno, che interfacciandosi con il ministero dell’Interno e la Regione, garantivano un servizio del genere rivolto non solo ai bambini ma anche agli adulti. «Non mi hanno detto perché non vengono più – aggiunge Rosanna a proposito dei suoi ex angeli che formavano una equipe qualificata – mi hanno solo detto che non gli è stato rinnovato il contratto e io veramente non so che fare. Tra l’altro era da 3 anni che loro si occupavano di Gabriele anche d’estate, quando la scuola chiude e lui ha poche possibilità di socializzare».

L’unico aiuto rimane quello dei volontari del Centro Presenza di Palmi, struttura che il bambino di 7 anni può continuare a frequentare 3 giorni a settimana, ma è per il resto delle ore di questa “fresca” via crucis - di una mamma che cresce da sola il figlio malato, da sempre - aggiunge indignazione alla rabbia.

«In Calabria - spiega Rosanna - non c’è un reparto di neuropsichiatria infantile, ogni 6 mesi accompagno mio figlio a Pisa per i controlli, e ora l’alternativa sarebbe rivolgermi ad una struttura privata che offre un pacchetto di assistenza, anche domiciliare, che costa almeno 600 euro. Sono spese che non posso permettermi ma ciò che più mi sconforta è che non capisco bene perché sia venuto meno un servizio pubblico gratuito che faceva bene a tante famiglie di questo territorio». Non è solo Rosanna a cercare risposte nella storia di un disservizio che colpisce anche Gioia Tauro, Melicucco, San Ferdinando, Rizziconi, Seminara, centri piccoli e grandi i cui responsabili degli Uffici comunali e di Ambito si sono riuniti in questi giorni - raccontano le cronache giornalistiche – senza riuscire a venire a capo di una rendicontazione, richiesta da Roma e Catanzaro, che ora impedisce la spesa di altre risorse. In pratica, dei 25 addetti che erano stati chiamati con contratti a termine, l’Ambito ha deciso di rinnovare il contratto a 12 assistenti sociali, ma non ai 13 dell’equipe che si prendeva cura di Gabriele e di altri. C’è tutto un sistema bloccato, oltre alle famiglie ne soffrono anche le strutture private convenzionate che trattano casi di pazienti con autismo e altre alterazioni dello spettro cognitivo.

Il nuovo contratto per gli assistenti sociali equivale per loro alla stabilizzazione nelle piante organiche dei Municipi, sorte diversa per gli altri operatori domiciliari che restano definitivamente “a casa”. «E nessuno si vergogna per questo», commenta con sorpresa Rosanna quando siamo noi a spiegarle – evidentemente meglio di quanto non abbia fatto la pubblica amministrazione – le ragioni tecniche del suo «nuovo incubo».

Caccia grossa alla guardia medica nel Catanzarese

di Luana Costa
Su e giù lungo la statale 106. L’arteria, già nota con il nome di “strada delle morte”, assolve adesso ad una nuova e infausta funzione ospitando i pellegrinaggi sanitari di quanti, alla ricerca di un luogo di assistenza, sono costretti a percorrerla di giorno, di notte.

Da Botricello a Cropani, da Cropani a Sellia Marina o da Sellia a Botricello. La sanità sull’alto Ionio catanzarese sembra quasi un gioco dell’oca, dove le ignare pedine – in questo caso i cittadini – si muovono su un percorso ad ostacoli determinato quasi quotidianamente dalla chiusura delle postazioni di continuità assistenziale. In teoria, presidi deputati a garantire le prestazioni sul territorio; nei fatti, chiusi diversi giorni a settimana e anche durante le ore notturne per indisponibilità di medici.

Zone disagiate dove i camici bianchi difficilmente prestano servizio preferendo luoghi dove la notte si può trascorrere con maggiore tranquillità e meno traffico di pazienti dietro la porta. Botricello, ad esempio, con i suoi cinquemila abitanti è sede sgradita, lo è altrettanto Sellia Marina che di abitanti ne ha più di settemila ma con ampi margini di crescita durante la stagione estiva.

Ai comuni costieri si preferisce così di gran lunga una sede come Marcedusa (396 abitanti) con buona pace di chi durante la notte, ad esempio, da Botricello deve mettersi in macchina per poter parlare con un medico in caso di emergenza. Nell’alto Ionio catanzarese l’assistenza è come un rebus: quando le guardie mediche di Botricello e Marcedusa sono chiuse si va in pellegrinaggio a Cropani, quando a Cropani e Botricello sono chiuse la via crucis si sposta verso Marcedusa.

E così via in un gioco dell’oca in cui solo raramente capita che ogni comune abbia – come dovrebbe – un presidio di assistenza attivo nelle ore previste. Si viaggia così sulla statale 106 in cerca di fortuna e nei casi più gravi la soluzione più sensata è quella di raggiungere Catanzaro dal momento che la postazione territoriale di emergenza di Sersale è demedicalizzata da oltre quattro anni e quella di Sellia Marina lo è per diversi turni.

Non stanno meglio i cittadini che vivono, invece, sulla fascia tirrenica catanzarese. Nel lametino le ambulanze viaggiano ormai quasi sempre demedicalizzate. Un esempio su tutti, il turno di notte dello scorso 1°aprile: dalle 20 alle 8 senza medico a bordo tutti i mezzi del 118 delle postazioni territoriali di Soveria Mannelli, di Falerna, di Lamezia Terme e di Maida, quest’ultima demedicalizzata senza soluzione di continuità da oltre quattro anni.

Nel Crotonese sanità all’anno zero

di Procolo Guida
Cos’è il diritto alla salute in Italia, cosa diventa in Calabria e come sprofonda nel crotonese? L’unico diritto per il quale la Carta Costituzionale riserva l’aggettivo “fondamentale” è il diritto che ha dato valore e forza al concetto di erga omnes, valevole per tutti, anche per i cittadini stranieri. E la strage di Steccato Cutro è più di un monito. Ma c’è un’altra bara bianca seppellita nel cimitero di Mesoraca, che pure fece scalpore mediatico. È la bara di Ginevra Sorressa, nata nel 2020 e morta nel 2022, tristissimo simbolo di un diritto negato alla salute dei bimbi di Calabria che disvelò, nel maledetto gennaio 2022, una via crucis che ha portato una bimba di due anni da Mesoraca fino allo Spallanzani di Roma, per un ultimo atto autoptico su di un corpicino dilaniato da polmonite da covid. Una via crucis che Ginevra, assieme al suo papà carabiniere, inizia al 118 di Mesoraca; un servizio di emergenza di quello che viene ancora impropriamente definito ospedale. Nel pomeriggio di giovedì 27 gennaio 2022 il papà si rivolge ai sanitari del posto, che subito trasferiscono la piccolina a Crotone; ma anche al San Giovanni di Dio Ginevra, non trova risposte all’urgenza di cui necessita; altro trasferimento al Pugliese Ciaccio di Catanzaro, che, a sua volta, ha una sola cosa da fare per Ginevra: trovare un volo militare per Roma e “vocarsi” al Bambino Gesù; approdo, purtroppo che serve solo a registrare, la stessa sera del successivo sabato, che il suo cuoricino non batte più; poi, l’ultimo straziante trasferimento allo Spallanzani, appunto per l’esame autoptico.

Una incredibile via crucis senza resurrezione, nemmeno per una popolazione che è chiamata all’ennesimo mea culpa con madre e padre della piccola Ginevra che non hanno nemmeno potuto tenere la manina della loro creatura perché “internati”, a loro volta, dal malefico Covid. Oggi, a distanza di 14 mesi dalla morte di Ginevra, nulla è cambiato. Nella sanità commissariata della Calabria è in uso il modello Hub & Spoke, modello organizzativo che parte dal presupposto per cui determinate condizioni e malattie complesse necessitano di competenze specialistiche e costose, solo negli Hub. Tutti gli altri a gravitare nei centri periferici Spoke, dove c’è servizio/parcheggio per i pazienti meno gravi.

Detto ciò, ci sarebbe molto più che chiedersi cosa non si riesce a risolvere o semplicemente a diagnosticare a Crotone e provincia a partire dallo stesso San Giovanni di Dio unico nosocomio della provincia, declassificato come Spoke.

Al San Giovanni di Dio di Crotone, innanzitutto cardiologia è assolutamente priva di emodinamica, che misura il livello di necrosi tissutale miocardica che consente, come noto, un successivo ed immediato intervento terapeutico risolutivo; così come è completamente assente un reparto di urologia, quello di medicina nucleare (dismessa e mai ripristinata da 5 anni) e con angiologia che “offre” solo servizi ambulatoriali e la mancanza della T.I.N. (terapia intensiva neonatale) per mancanza di medici. Ma anche ortopedia fa storia (incredibile) a sé: per i notturni ed i festivi c’è solo una reperibilità dei medici specialisti che viene attivata per casi urgenti; per cui l’infermiere di turno è costretto a suggerire di ritornare il giorno dopo feriale. Senza trascurare tre situazioni cronicizzate: la prima, più volte denunciata dall’Adi, per i dializzati, unici in Italia, che hanno il reparto al settimo piano con forti rischi infezione; la seconda che riguarda i ritardi accumulati per il nuovo Pronto Soccorso già finanziato che non riesce a tirarsi fuori dall’attuale dislocazione oramai affogata ed inefficiente; e la terza criticità circa il turn over continuo di specialisti che, appena possono, dopo la prima nomina, scappano; così aumentano le chiamate del medico a gettone, tanto antipatiche al governatore Occhiuto.

Se si volesse fare informazione sensazionalistica basterebbe iniziare dalle foto di alcuni “reparti” dei due sub distretti questo il loro nome ed identificazione amministrativa corretti, che sono Mesoraca e Cirò Marina. Ma in questa via crucis nella comunque desolante situazione della sanità nel crotonese, ci siamo dati l’obbiettivo di analizzare servizi e capacità di accesso.

Partiamo da Mesoraca: oggi ci sono visite per quasi tutti gli accertamenti diagnostici che arrivano immediatamente, se richiesti in regime di "intramoenia" (trattasi di quelle prestazioni erogate al di fuori del normale orario di lavoro dai medici di un ospedale a fronte però del pagamento da parte del paziente di una tariffa); se invece le richieste passano dalla prenotazione gratuita, scattano le solite liste di attesa. Al Campizzi ci sono 2 ambulanze di cui 1 garantita dalla Croce Rossa Italiana (e sappiamo come e quanto sia qualificato il personale di questo mezzo) con l’impossibilità a rispondere per le chiamate in codice giallo (peggio ancora in codice rosso dove addirittura può perfino peggiorare l’esito del soccorso).

Al Poliambulatorio di Cirò Marina, invece, non esiste proprio laboratorio di analisi, non c’è mammografia e nemmeno la M.O.C. (esame radiologico fondamentale che permette di determinare la densità minerale dell'osso). Il Suem (Servizio Sanitario di Urgenza ed Emergenza) funziona come a Mesoraca, se non peggio.

Prima di specificare quanti e quali servizi “offre” invece il Poliambulatorio di Tufolo nella città capoluogo (grosso modo assimilabile ai due sub distretti di Mesoraca e Cirò Marina) è doveroso specificare che almeno le condizioni strutturali sono più decenti, anche se l’area che già ospitava il servizio del CSM (centro di salute mentale comunque ridotto) era stata classificata dal Piano Versace come alluvionabile. Il vecchio Poliambulatorio di Corso Messina (in centro città) ha operato con non più di 4 infermieri ed 1 ausiliaria; oggi nella nuova sede di Tufolo ci sono 14 infermieri, 2 O.S.S. (operatori socio sanitari) ed 1 ausiliaria: eppure le prestazioni sono le medesime di quelle effettuate fino a qualche mese fa, prima del trasferimento. Manca l’analisi dell’emogas (cioè la misurazione dell’ossigeno nel sangue arterioso) così come su tutto il territorio.

Per quanto attiene l’A.D.I. (l’Assistenza Domiciliare Integrata), i dati sono esaustivi: evase non più del 15% di richieste, e gli enti accreditati sono vertiginosamente aumentati negli ultimi 5 anni. Perché, viene da chiedere, non sono mai stati utilizzati i 2 OSS in capo a Tufolo?

Per completare il quadro della medicina territoriale, si registra che da 4 anni non ci sono disponibili cure Palliative e Terapia del Dolore domiciliare; così come sono assenti da sempre infermieri di famiglia, e che è praticamente defunta la Medicina scolastica.

E le Guardie Mediche? 31 sono le postazioni previste (27 una per comune della provincia, più altre 4 a Crotone, Pagliarelle, Le Castella e S. Leonardo di Cutro); ma 25 non sono mai completamente coperte, fra queste proprio i grossi comuni. Solo per fare due esempi: a Mesoraca, per il mese di aprile in corso, solo 7 turni su 30 sono garantiti; ad Isola Capo Rizzuto tra il 31 marzo ed il 3 aprile scorsi, i locali della Guardia Medica sono stati deserti per la metà del tempo.

Per quasi tutte le prenotazioni la media di attesa è almeno di 1 anno, ed il sistema non consente di prenotare direttamente on line. E le emergenze al 118? A rispondere alla centrale operativa ci sono infermieri (con la “mera” disponibilità dell’assistenza medica) ma soprattutto senza un dispatch di protocollo (la funzione appunto che regola la gestione di tutte le chiamate riguardanti l'emergenza sanitaria, in tutte le fasi inerenti il sistema di soccorso). Chi risponde non sa quali ospedali Hub potrebbero intervenire; a giustificare che il sussidiario servizio di elisoccorso in tutta la provincia di Crotone ha una singola postazione a Cirò Marina, però non in serale/notturno, servizio disponibile solo a Reggio e Lamezia.

Lacune dunque sia dal punto di vista strutturale che da quello organizzativo davvero complesse; se si considera, oltretutto, la spesa per fitti passivi che sfiora il milione di euro all’anno (assorbiti per oltre l’80% dalla sede amministrativa al Granaio di Crotone) ed un enorme spesa per contenziosi legali che incide non poco sui conti, che al bilancio previsionale del 2022 dicono deficit complessivo per oltre 27 milioni di euro.

La piccola ed innocente Ginevra aveva necessità di un macchinario molto particolare che nel Centrosud è disponibile solo a Roma e Bari; se fosse stato già attivato un servizio di assistenza emergenziale adeguato, sarebbe potuta arrivare molto prima al Bambino Gesù di Roma e, magari, mai sarebbe approdata allo Spallanzani per l’autopsia.

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