«Ci siamo fidati e ci ha traditi», la preoccupazione per il pentimento di Grande Aracri e le manovre per riorganizzare gli equilibri del clan
I timori dei sodali sulla collaborazione (poi fallita) del boss di Cutro Nicolino “mano di gomma”: «Ora mi guardo sempre». E la riorganizzazione di un nuovo gruppo nelle intercettazioni dal carcere: «Non capisce l'importanza che abbiamo adesso»
«Voi siete stati traditi però noi pure siamo stati con lui! Sempre con "mano di gomma", ora che "mano di gomma" ha fatto questa azione io non mi fido di andare a Mesoraca, a Petilia, o vado a Papanice. Io sempre mi guardo». Stupore e disappunto, sono questi i sentimenti registrati nell'entourage di Nicolino Grande Aracri, all'indomani della notizia del suo pentimento.
Dalle ceneri dei Grandi Aracri
Reazioni che trovano ampio spazio nell'ordinanza di custodia cautelare emessa ieri dal gip distrettuale a conforto della tesi secondo cui l'indebolimento della storica famiglia cutrese avrebbe dato la stura alla nascita di un nuovo gruppo. Alla presunta guida Vito Martino che «insieme agli altri associati ragionava su come riorganizzare gli equilibri del sodalizio ed i rapporti con le altre consorterie».
Il pentimento di "mano di gomma"
Dal carcere, utilizzando moglie e figli, avrebbe impartito le direttive «più importanti che riguardavano gli assetti della cosca». Innanzitutto i commenti al pentimento di "mano di gomma", poi nei fatti ritenuto inattendibile dai magistrati, ma che nell'immediatezza aveva destato grande preoccupazione. «Io non mi fido di nessuno» confidava alla moglie di Vito Martino, Antonio Colacino per chi indaga «soggetto incardinato nella cosca Grande Aracri».
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Terra bruciata
«Adesso che ci ha tradito dobbiamo aspettare qualcuno che si prenda la responsabilità». Nelle sue parole tutto il disappunto per «la scelta del boss cutrese che avrebbe rischiato di fare terra bruciata nel loro entourage, con il serio e fondato rischio che nessuno stesse più dalla loro parte». Era l'8 settembre del 2021 ma già l'8 agosto dal carcere si lavorava alla successione.
Il vuoto di potere e la successione
Vito Martino a dialogo con il figlio Salvatore commentava le potenzialità aperte dall'attuale posizione di indebolimento della cosca Grande Aracri: «Non capisce l'importanza che abbiamo adesso» dice commentando le azioni di Giuliano Muto (indagato nell'inchiesta perché ritenuto partecipe del gruppo Martino). «Si stava comportando male non approfittando, come concordato dai due, della situazione che si era venuta a creare sul territorio contrassegnato da un vuoto di potere e dalla sostanziale perdita di credibilità della cosca Grande Aracri».
Il «papà» Nicolino
«Ci siamo fidati» confidava Martino alla moglie e ai figli durante i colloqui in carcere, riferendosi al boss di Cutro, un «papà», meditando però l'ascesa all'ombra della famiglia Grande Aracri. Il 20 agosto ordinava al figlio di «andare dalla zia Rosa a vedere se tutto fosse ok». La zia Rosa, per chi indaga, sarebbe Rosita Megna, figlia di Mico (non indagata nell'inchiesta). Vito Martino «tramite il figlio cercava di persuadere la Megna a corrispondere un sostegno economico evidentemente per coltivare l'iter procedurale proposto dagli avvocati». Sarebbe potuto uscire dal carcere grazie ad un «cavillo» prospettatogli dai suoi legali.
Gli assetti sul territorio
Desiderio che accarezzava per poter riorganizzare il gruppo frenando i tentativi di Salvatore Ciampà di «fare la pace». Le due famiglie in contrapposizione dopo la supremazia ottenuta sul territorio dai Grande Aracri sui Dragone, Ciampà ma al costo di una lunga scia di sangue. «Nel corso di un colloquio il detenuto chiedeva al figlio se fosse andato dalla zia. Quindi emergeva in un contesto dialogico molto accorto, il riferimento ad un incontro tra Francesco (il figlio di Vito Martino, ndr) e Liune (Salvatore Ciampà, ndr) che gli avrebbe chiesto di fare la pace».
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La richiesta di pace
Una richiesta di incontro reiterata da quest'ultimo anche a Rosita Megna «sempre per la pace». «Vito Martino, con tono alterato, evidenziava che il Ciampà poteva parlare con la zia ma comunque la questione doveva essere risolta allorquando sarebbe uscito dal carcere. Quindi esortava il figlio a recarsi dalla zia, separatamente rispetto al Liune, al quale avrebbe dovuto invitarlo a stare "calmo calmo"» si legge nelle carte dell'inchiesta.
Le cose di Cutro
La questione oggetto di un'altra conversazione registrata dagli investigatori. Quando Vito Martino chiedeva nuovamente al figlio «se avesse incontrato il Liune e se fosse andato a parlare con la zia. Francesco rispondeva di no aggiungendo di aver parlato con il nipote della donna (Pantaleone Megna, non indagato nell'inchiesta, ndr) il quale avrebbe fatto pervenire l'ambasciata della congiunta secondo cui "le cose di Cutro, deve sbrigarsele Cutro"!».