La storia

Ha la sindrome di down, 20enne calabrese costretto a una vita di solitudine. La mamma: «Le istituzioni ci hanno abbandonato»

Il ragazzo vorrebbe frequentare associazioni e centri sociali ma necessita di assistenza. Così, per la maggior parte del suo tempo si ritrova a giocare da solo. I genitori: «Ha diritto di vivere in maniera dignitosa» (ASCOLTA L'AUDIO

di Francesca  Lagatta
15 marzo 2023
13:20
Antonio mentre giocato con le sue macchinine
Antonio mentre giocato con le sue macchinine

Antonio ha un sorriso travolgente e una dolcezza che scioglie i cuori. Sorride sempre, soprattutto con gli occhi, anche quando riceve porte chiuse in faccia, perché lui vede il mondo da un'altra prospettiva. Ha la sindrome di Down, ha vent'anni, vive a Tortora insieme alla sua famiglia e passa il tempo a giocare a terra con le sue adorate macchinine, seduto su un tappeto, o a rincorrere per casa la sorellina, con cui si diverte tanto. Per il resto, è costretto a starsene chiuso in casa, senza far nulla, perché lo Stato non sa e non vuole tendere la mano ai ragazzi come lui. Piuttosto, li considera un peso.

Ad Antonio (nome di fantasia) sono "concesse" le terapie occupazionali domiciliari per poco più di due ore a settimana, tre sedute da quarantacinque minuti l'una, poi il nulla. Non può frequentare associazioni o altri spazi sociali, perché nel suo caso si dovrebbe ricorrere all'assistenza alla persona e l'assistenza non c'è. Quando la sua famiglia la richiede, comincia lo scaricabarile tra istituzioni, tra chi non ha fondi, chi non ha competenze e chi, semplicemente, non vuole assumersi responsabilità. A sua madre hanno detto tante volte di arrangiarsi, perché il figlio percepisce la pensione di invalidità e quei pochi spicci dovrebbero farseli bastare per tutto. Alla fine, a pagarne le spese è soltanto Antonio, che passa la maggior parte del tempo da solo, senza stimoli e senza nessuna opportunità di crescita.


Le terapie domiciliari

Antonio cresce in un ambiente famigliare sereno, circondato dall'amore dei familiari, della sorellina, della mamma e dal marito, che non è il padre biologico del ragazzo ma è per lui, a tutti gli effetti, un genitore attento e presente. Negli anni, la famiglia ha cercato di fargli vivere una vita al pari di quella dei suoi coetanei, ma sul loro cammino hanno incontrato diversi ostacoli, a partire da quelli generati dalla solita burocrazia lenta ed inefficiente. Antonio comincia a sottoporsi ad alcune terapie nei centri Aias di Lauria, trenta chilometri più a nord di casa sua, nel Potentino, ma lo stress per i viaggi gli causano una grave reazione allergica. Il suo corpo si riempie di chiazze rosse pruriginose. Così, d'accordo con i dirigenti dell'Asl di Scalea, i responsabili decidono di seguire il ragazzo a casa, nell'ambiente a lui più consono. Gli addetti lo sottopongono alle terapie occupazionali per tre volte a settimana. Antonio, di volta in volta, fa passi da gigante e piano piano conquista la sua autonomia nelle piccole cose. La famiglia si rende conto che, se potesse avere accesso alle terapie per più ore, sarebbe molto meglio e imparerebbe molte più cose. Ma l'Asp frena: di più non si può.

La necessità di un assistente alla persona

Per un certo periodo, la famiglia tenta la strada della socializzazione e lo convince a frequentare il centro Arianna, realtà consolidata del territorio di comprovata professionalità. Qui, Antonio fa nuove amicizie, gioca con gli altri, si appassiona alle attività, ma dopo un po' deve lasciare: senza un assistente alla persona non può rimanere, in primis per la sua tutela. Così la sua mamma si rivolge alle istituzioni preposte per richiedere la figura sanitaria che possa accompagnare il figlio alla scoperta del mondo. Ma sembra che nessuno possa farci niente, Antonio e la sua famiglia devono sbrigarsela da soli. A ciò si aggiungono le umiliazioni dei cittadini comuni: «Hai la pensione di tuo figlio - si sente dire la madre -, usala per pagarti qualcuno. Di che ti lamenti?». La donna si sente ferita e mortificata.

«È  vero - ci dice, con la voce spezzata -, mio figlio prende la pensione di invalidità e io, in quanto sua tutrice, percepisco anche l'indennità di accompagnamento, ma quei soldi mi servono per far fronte a tutte le sue esigenze». Che sono tante. La madre compra di tasca sua le medicine, i giochi che servono a stimolare la sua attività cerebrale, le visite, i viaggi e tutto quello che serve per dare al figlio una parvenza di normalità. A volte, i pannoloni forniti dall'Asp non bastano e occorre procurarsene altri. C'è poi da dire che l'intera cifra della pensione non basterebbe a pagare adeguatamente lo stipendio di una figura professionale di assistenza alla persona. «In questi anni me ne sono sentita dire di tutti colori - confessa la donna -, sono arrivati finanche a dire che io approfitto della situazione di mio figlio. Ma Dio è grande, so che prima o poi mio figlio ed io avremo il nostro riscatto». Per il momento, la loro è soltanto una lotta contro i mulini a vento.

Il grido di aiuto della famiglia

«Adesso sono stanca - dice ancora la donna, da cui il figlio ha ereditato il sorriso radioso e lo sguardo tenero -. Voglio che tutti sappiano che lo Stato e le istituzioni ci hanno prima preso in giro e poi abbandonato. Io non mi arrendo e continuerò a lottare, costi quel che costi. Non chiedo la luna, chiedo soltanto che a mio figlio venga riconosciuto il diritto di vivere la sua vita come tutti gli altri. Mio figlio non è un peso, né per la sua famiglia né per la società, è un dono prezioso che riempie le nostre giornate di gioia e di amore ed ha tanto da dare. Spero che qualcuno lo capisca e ci aiuti».

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